Nel 1914 la maggioranza dei delegati al XIV congresso del Partito socialista italiano, riunitisi ad Ancona il 26, 27 e 28 aprile, decretarono l’espulsione degli iscritti che erano contemporaneamente affiliati alla massoneria. Gli eventi di quella primavera infuocata, basti pensare che pochi giorni dopo scoppiava la famosa “settimana rossa”, ebbero un risalto straordinario su tutta la stampa nazionale e internazionale anche perché consacrarono Mussolini come leader incontrastato del socialismo massimalista, e vengono ancor oggi citati dalla storiografia contemporanea come tra quelli più significativi che precedettero lo scoppio della grande guerra. Mussolini non aveva mai nascosto il suo odio per la libera muratoria e la veemenza dei suoi attacchi lo dimostrarono. Il futuro ‘duce’ pose fine a una querelle che aveva interessato quasi tutti i congressi socialisti a partire dal 1904. All’interno della dinamica delle correnti, condannare la massoneria significava aumentare l’omogeneità classista del Psi e punire ogni collaborazione con organizzazioni borghesi. Nell’assise congressuale tenutasi a Bologna nell’aprile del 1904, la questione massonica venne ufficialmente inserita nell’ordine del giorno con la richiesta della condanna della doppia appartenenza sulla base del rifiuto dei principi fondamentali della liberamuratoria: il transclassismo e la visione metapartitica dell’umanità. Inoltre venne sottolineata la distinzione tra l’anticlericalismo massonico e quello socialista.
Si cercò, nel decennio successivo, di risolvere la questione ricorrendo a ben tre referendum in cui si chiedeva alla base di pronunciarsi sulla compatibilità alla doppia appartenenza. Il fatto che nessuno di questi tre referendum raggiunse il quorum necessario dimostra quanto, alle volte, la polemica fosse strumentale. Infatti nonostante l’atteggiamento antimassonico di prestigiosi esponenti di tutte le correnti presenti nel partito, nell’età giolittiana vi fu una notevole adesione di socialisti alla massoneria.
Indubbiamente la svolta in senso progressista imposta dal Gran Maestro Ettore Ferrari nel 1906 alla più grande Obbedienza del paese facilitò questa adesione. La stagione di buoni rapporti coincise con quella dei blocchi popolari e venne rinnovata da un comune impegno contro l’alleanza clerico-liberale. La difesa degli interessi del proletariato passava anche attraverso la sconfitta del clericalismo e la Francia, dove l’unione delle forze democratiche era riuscita a imporre la netta separazione tra Chiesa e Stato, divenne un esempio da seguire. Una simile svolta non poteva che essere accolta con vivo interesse dai vertici del Grande Oriente d’Italia, che di questa divisione erano stati i più strenui assertori. L’esperienza politica dei blocchi popolari ossia l’alleanza tra liberali progressisti, radicali, repubblicani e socialisti, rappresentò il momento di maggior intesa tra il mondo massonico e quello socialista, soprattutto con la corrente riformista che faceva capo a Leonida Bissolati. La sua espulsione e quella della sua corrente dal Partito socialista nel 1912 decretò la vittoria dei massimalisti, la fine della stagione ‘bloccarda e la ripresa dell’antimassonismo. Ancora una volta il termine “massoneria” venne usato per accusare gli avversari di debolezza e cedimento interclassista, per ‘bruciare’ carriere all’interno del Partito, come nel caso di Giovanni Lerda, ma questo non impedì che tra il 1910 e lo scoppio della Prima guerra mondiale, molti personaggi di spessore del Partito continuassero ad aderire alla massoneria giustinianea. Ma grazie all’influenza esercitata da Mussolini, attraverso le colonne dell’«Avanti!» di cui era il direttore, l’annosa questione della compatibilità della doppia appartenenza stava per raggiungere il proprio epilogo. Non a caso nel congresso di Ancona del 1914, che doveva sancire la leadership di Mussolini, finalmente il nodo venne al pettine e grazie al suo intervento fu sancita ufficialmente l’espulsione dei massoni.
Durante quell’assise congressuale prevalse nel socialismo una corrente che aveva fatto una precisa ed ineccepibile, dal punto di vista marxista, scelta di conquista dello stato per l’instaurazione della dittatura del proletariato. Su questo terreno per la massoneria – fautrice di un «partito dello stato», composto da più partiti, che si ergesse a difesa dell’unificazione nazionale e lottasse per una profonda modernizzazione dello Stato liberale e non per la sua distruzione – non potevano più esserci margini di mediazione. Non le restava altra scelta se non quella di accettare l’incompatibilità, perché l’affermazione di quel trinomio «Libertà, Uguaglianza, Fratellanza», poteva realizzarsi, per i socialisti massimalisti solo attraverso una lunga e improponibile, per il liberomuratore, dittatura e non tramite una evoluzione che poteva essere attuata attraverso le riforme, con metodo graduale, all’insegna di quel transclassismo che la massoneria propugnava, rifiutando l’interpretazione della storia come storia delle lotte di classe, e concependo l’evoluzione umana attraverso una visione solidaristica che poneva la cooperazione come elemento cardine dell’evoluzione stessa Sul complesso rapporto tra massoneria e socialismo rimandiamo al libro di Marco Novarino, Tra squadra e compasso e sol dell’avvenire. Influenze massoniche sulla nascita del socialismo in Italia(1864-1892), Torino, Fondazione Università Popolare di Torino. (Fonte Erasmo aprile 2014)