Sessant’anni fa moriva l’autore dell'”Estetica” che influenzò tutto il pensiero del Novecento
Lo ricorda il nipote Piero Craveri, storico a capo della Fondazione intitolata al nonno
Idealismo di famiglia, ecco la vita intima di un grande filosofo
di Nello Ajello
Aveva quattordici anni quel 20 novembre del 1952, quando morì Benedetto Croce. Oggi il settantaquattrenne Piero Craveri, nipote del filosofo, professore emerito di storia contemporanea e presidente della Fondazione Croce, ha accettato di rievocare la personalità del nonno, nel sessantesimo anniversario della scomparsa. I suoi sono, insieme, ricordi di vita familiare e rilievi culturali di prima mano.
Qual è stata, Piero, la prima circostanza che, da bambino, ti fece pensare: il nonno è un grand’uomo?
«Fu nel 1942, o l’anno successivo. Io andavo per i cinque anni. C’era la guerra. Eravamo sfollati con i nonni materni in un piccolo paese del Piemonte, Colleretto Giacosa. Si temeva, in famiglia, una ritorsione da parte dei fascisti, proprio per la parentela che ci distingueva. Nessuno ci aveva prospettato quell’ipotesi in maniera netta. Ma era un timore ingombrante che ci aleggiava intorno. Nacque così in me la certezza che mio nonno fosse una personalità eminente. Si sa che i bambini vanno in cerca di un’identità. A me accadde di trovarla così».
Che nonno era, Benedetto Croce?
«La sua autorità domestica era indiscussa. Benché così assorto negli studi, e anche nella politica, non si lasciava sfuggire alcun particolare riguardante ciascuno dei suoi familiari. Era così nel rapporto con noi nipoti. Lo sentivamo, come dire?, distante ma presente. Il momento che più familiarmente si viveva con il nonno erano i pasti, durante i quali il suo ruolo non poteva che essere patriarcale. Tutti avevano a tavola un posto fisso. Noi bambini sedevamo alla fine del lungo desco, dopo gli ospiti. I quali cambiavano di giorno in giorno, ed erano sempre numerosi».
Ne ricordi qualcuno?
«Fausto Nicolini, Gino Doria, Giovanni Pugliese Carratelli, qualche volta Federico Chabod. Erano, in larga prevalenza, esponenti della vecchia civiltà napoletana. Sapevano individuare i pregi e i difetti di ciascuno, ma avevano la particolarità di non fare sfoggio di cultura. Tranne quando la conversazione verteva in maniera irresistibile sulle tante cose che sapevano».
Si parlava di politica, in famiglia?
«Di politica no. A volte, dei politici. Quando il nonno veniva a Roma, ospite di un amico napoletano, Antonio Sarno, che abitava vicino alla Minerva, di politici in anticamera se ne vedevano molti. Ne ricordo uno, De Gasperi. Stava per entrare nello studio che, in quell’appartamento, era riservato a Croce. Si fermò con spontanea gentilezza di fronte a me, unico bambino presente. Non potrò dimenticarne lo sguardo malinconico ».
Anche per questo, forse, saresti stato vari decenni più tardi uno dei massimi biografi del premier democristiano. Quel volume s’intitola semplicemente De Gasperi.
«Mentre lo scrivevo quel libro, il piccolo episodio di casa Sarno mi è tornato alla mente con naturale prepotenza».
Craveri, che cosa resta, oggi, di tuo nonno?
«La lettura di Croce è passata per tre diverse stagioni. Il primo Novecento ha visto l’affermarsi dell’idealismo. Poi c’è stata l’opposizione del filosofo al fascismo. In questi due momenti egli ha segnato nel profondo la cultura italiana. Ma non c’è stata mai una “dittatura crociana”. È un’invenzione escogitata in una terza ed ultima stagione, quella che, dopo il 1945, venne influenzata dalla contrapposizione comunista e neo-marxista. Oggi la valutazione dell’opera di Croce è sempre più sgombra da pregiudizi».
Chi sono, adesso, i crociani?
«Anche l’ultimo mezzo secolo ha visto in Italia una schiera di insigni studiosi che si sono rifatti a lui, da Nicola Matteucci a Rosario Romeo, da Giuseppe Galasso a Gennaro Sasso, e ancora Emma Giammattei e Michele Maggi. Cito solo questi fra i tanti. E fuori d’Italia sono usciti negli Stati Uniti gli importanti lavori di Hayden White e di David D. Roberts. In Germania la sua presenza è viva e attuale con Karl Egon Lönne. In Inghilterra la scuola di Collingwood ha tessuto un filo costante con l’intera opera del nonno».
Quali sono i libri di Croce che andrebbero letti e che non tutti leggono?
«Partirei dall’Estetica e dalla Storia d’Europa. Ci sono poi le opere del Croce “moralista”, come Etica e politica e Cultura e vita morale. Una scelta ampia delle opere di Croce figura nel catalogo della Adelphi, e l’edizione nazionale dell'”opera omnia” è in corso di stampa presso l’editore Del Franco».
E all’estero?
«Dell’Estetica abbiamo una traduzione inglese del 1992. Ne stanno preparando una in Russia e una in Francia. Altri suoi libri sono presenti in Spagna e in Argentina. In Cina è prevista la pubblicazione delle opere storiche».
Che ruolo svolgono le istituzioni a lui intestate?
«Partiamo dall’Istituto di Studi Storici, che Croce fondò a Napoli nel ’47. Ha accanto, a palazzo Filomarino, la Biblioteca (insieme, l’uno e l’altra raggruppano oltre 300 mila volumi). L’Archivio crociano raccoglie le lettere del filosofo: i suoi corrispondenti sono circa 10 mila. È in via di preparazione il carteggio Croce-Gentile in un unico volume».
Ma torniamo al personaggio privato. A “nonno Croce”. Inseguiamolo in villeggiatura.
«D’estate si andava a Pollone, vicino a Biella».
Un napoletano in periodica trasferta al Nord?
«Il legame del nonno con il Piemonte trovava forza nella frequentazione dei personaggi dell’antifascismo locale. Al fondo, c’era anche un’indubbia valenza risorgimentale».
Nei Taccuini di lavoro di Croce, cinque volumi pubblicati senza fine di lucro dall'”Arte Tipografica” di Napoli, ho trovato un episodio che riguarda tua sorella Benedetta. Data, 27 aprile 1948. La nipotina ha sei anni. Il filosofo depreca il fatto che «la bella bambina che reca il mio nome, istruita da una governante o istitutrice comunista che ha in casa», pronunzi «parole acclamative all’indirizzo di Stalin e per l’avvento del bolscevismo in Italia”. E aggiunge: «Alla prima occasione, porrò rimedio a questo». Come andò a finire? Croce fece licenziare la nurse?
«Non so e non credo. Di fatto, quella governante, livornese, professava una ferrea fede comunista. Probabilmente il nonno pensò che, per imitare quella ragazza, ci sarebbero stati motivi meno molesti di un inno a Stalin».