Firenze, 5 settembre 1870, martedì – E’ deciso: si va a Roma. Ci sono voluti tre giorni di discussione in Consiglio dei ministri e, alla fine, una notizia: ieri, domenica 4, all’una di notte, è stata proclamata la Repubblica a Parigi. Napoleone III è uscito dalla scena europea nel modo più infelice. A luglio è caduto in una trappola: gli spagnoli, che faticavano da tempo – e sempre un po’ faticheranno – a trovarsi il re giusto, avevano pensato di prendersene uno da un ramo secondario, e cattolico, degli Hohenzollern, la casa regnante a Berlino. A Parigi, prima, era stata sindrome d’accerchiamento – i tedeschi sui Pirenei, oltre che sul Reno – poi, più che altro, era divenuto puntiglio: l’imperatore dei Francesi ha dichiarato guerra alla Prussia, che non aspettava di meglio per andare a trovarlo, portandosi appresso anche gli eserciti di altri stati tedeschi, l’imminente grande Germania insomma.Quattro giorni fa Napoleone è stato sconfitto a Sedan, dipartimento delle Ardenne. Ha scritto al re Guglielmo questo biglietto: “Signor mio fratello, non essendo potuto morire fra le mie truppe, non mi resta che rimettere la mia spada fra le mani di Vostra Maestà”. L’altro gli ha risposto: “Signor mio fratello, dolendomi delle circostanze nelle quali ci incontriamo, accetto la spada di Vostra Maestà, e la prego di nominare uno dei vostri ufficiali, munito dei vostri pieni poteri, per trattare la capitolazione dell’esercito che si è così valorosamente battuto sotto i vostri ordini”. Sotto i suoi ordini, proprio, no: non era in condizione di darli. Bastava guardarlo, là, al castello di Belle-Vue sulla scala in attesa del “fratello” vittorioso. Il volto era grigio, più che per la sconfitta, forse, per i dolori che pativa da settimane e settimane: mal della pietra, calcoli, sommati a prostatite. Immaginate cosa possa esser stato curarseli andando a cavallo. Adesso è prigioniero, ma trattato come un ospite, nel castello di Wilhelmshöhe, in Assia.
Victor Hugo, che proprio oggi rientra in Francia dall’esilio, lo ha sempre chiamato “Napoleone il piccolo”. Quando sarà passato più di un secolo un politico gollista di valore, Philippe Séguin, gli dedicherà un libro intitolato “Luigi Napoleone il Grande”. Confesso di aver sempre avuto più simpatia per lui che per lo zio. Ma ammetto che entri in gioco più il sentimento che il giudizio: penso alla sua gioventù italiana e carbonara. Penso anche al più simpatico, forse l’unico simpatico, dei re d’Italia, Vittorio Emanuele II, il quale, certo, deve aver sofferto molto a non poter correre in soccorso del monarca che tanto lo ha aiutato a conquistare una parte della penisola e ha poi lasciato che si prendesse il resto.
Non tutto il resto, però: e questo è il punto. Il padrino, diciamo così, dell’unità nazionale italiana, era anche il protettore del potere temporale del papa a Roma. L’amicizia italo-francese si è incrinata a Mentana nel 1867: Napoleone III ha mandato di nuovo i suoi soldati, i cui fucili a retrocarica hanno, come ha detto il generale de Failly, “fatto meraviglie” contro i volontari di Garibaldi. E, d’altra parte, una trattativa fra Parigi, Vienna e Firenze, per costituire un’alleanza capace di ostacolare la tendenza egemonica tedesca si è trascinata senza risultati, andando sempre ad arenarsi negli scrupoli romani di Napoleone III. Ora la strada sembra libera. Ancora ieri i ministri di Vittorio Emanuele discutevano se l’occupazione italiana dei territori rimasti sotto il dominio pontificio dovesse fermarsi alle porte di Roma: la maggioranza, che comprendeva il presidente del Consiglio Lanza, il ministro degli Esteri Visconti Venosta, il ministro della Guerra Govone, era stata appunto di questo parere. Il giorno dopo la Repubblica Francese ha fatto il miracolo: ora sono tutti d’accordo con il ministro delle Finanze Quintino Sella. Si va a Roma.(di STEFANO TOMASSINI)
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