Il volto che sembra delinearsi sul disco della luna è stato da sempre oggetto di speculazioni e favole. Plutarco lo sceglie qui come pretesto per uno dei suoi più affascinanti opuscoli, occasione per una esercitazione cosmologica e mitologica fra le più dense dell’antichità classica. Proprio qui, fin dall’inizio, con disarmante sobrietà, Plutarco afferma l’indispensabilità del mito, poiché «quando i concetti comuni assodati e familiari cessano di convincere, è necessario avere il coraggio di tentar vie fuori mano e di applicare senz’altro a noi stessi gli incantesimi degli antichi, ricorrendo a ogni mezzo per appurare la verità». Ma, come sempre in Plutarco, il discorso è composito: mitologico ma scientifico, geografico e geometrico, letterario e filosofico. E soprattutto sarà in questo testo che ritroveremo tracce preziose, e altrimenti occultate nella tradizione greca, del regno di Crono, di quel sovrano dell’Età dell’oro, precedente a Zeus, al quale sono connessi i misteri ultimi del mondo, poiché soltanto Crono del mondo stesso «conosce le misure».