Vi è qualcosa che nella crisi dello Stato liberale successiva alla Grande guerra accomuna
l’intero arco delle forze politiche di governo dell’Italia post-risorgimentale sia nelle sue componenti
liberalmoderate che in quelle democratico-radicali: l’incomprensione iniziale del fenomeno fascista,
del quale non percepiscono l’intima natura antidemocratica e il potenziale eversivo, ma che viene
valutato alla stregua di un fenomeno transitorio originato dalle convulsioni del dopoguerra, che può
strumentalmente servire a contrastare la “marea bolscevica” per essere poi sapientemente ricondotto
nell’alveo delle istituzioni liberali.
Un drammatico errore di valutazione da cui non andarono esenti, per esempio, politici
navigati come Giolitti o acuti intellettuali come Croce e da cui non fu certo immune una
protagonista dell’Italia risorgimentale e post-risorgimentale quale la Massoneria. Senza tuttavia
fare, trattando dei rapporti tra fascismo e Massoneria, se ci è consentito il gioco di parole, di ogni
erba un fascio, come, a modesto avviso di chi scrive, fa Marcello Veneziani nel suo per altro
stimolante contributo All’armi siam fascisti, anzi massoni.
S’impone invece una doverosa distinzione tra le due principali Comunioni massoniche
italiane del tempo: la minoritaria Gran Loggia d’Italia detta di Piazza del Gesù e la maggioritaria
Grande Oriente d’Italia detta di Palazzo Giustiniani. Mentre la prima mai cesserà di secondare e
fiancheggiare il fascismo assurto al potere, la seconda tra la fine del 1922 e l’inizio dell’anno
successivo ribadirà con forza il suo attaccamento al “principio fondamentale democratico” e alla
“sovranità popolare, fondamento incrollabile della nostra vita civile”.
Quanto basta perché nel febbraio del 1923 il Gran consiglio del fascismo sancisca
l’incompatibilità tra appartenenza al Partito nazionale fascista e appartenenza alla Massoneria e nei
mesi successivi si registrino i primi episodi di violenza squadrista ai danni di logge e uomini del
Goi. Episodi destinati a continuare a cavallo delle elezioni politiche dell’aprile del 1924 e
dell’assassinio di Giacomo Matteotti (a proposito del quale il riferimento di Veneziani a “la longa
manus della Massoneria nella vicenda” non trova supporto nella letteratura storiografica
sull’argomento) e a crescere d’intensità e virulenza nel corso del 1925 con la selvaggia bastonatura,
le cui conseguenze e a distanza di alcuni mesi ne avrebbero determinata la morte, dello stesso capo
dell’opposizione aventiniana, il massone giustinianeo Giovanni Amendola, e con tutta una serie di
aggressioni e violenze inequivocabilmente correlate alla lotta senza quartiere contro la Massoneria
proclamata dal Direttorio del Pnf con circolare del mese di aprile e destinate a culminare nel
pogrom dei massoni fiorentini dei primi giorni di ottobre, nel corso del quale rifulgerà l’eroismo di
Giovanni Becciolini, orrendamente trucidato mentre tentava di porre a riparo dalla violenza
squadrista l’anziano Maestro Venerabile della sua loggia.
La decisione del Gran Maestro Torrigiani di tentare di alleviare con l’autoscioglimento
dell’Ordine decretato nel novembre del 1925 una pressione divenuta ormai insostenibile, non evita
una nuova ondata repressiva che nella seconda metà degli anni Venti colpisce i massoni di Palazzo
Giustiniani: da Torrigiani medesimo condannato a cinque anni di confino, al Gran Maestro aggiunto
Giuseppe Meoni, all’ottuagenario Gran Commendatore del Rito Scozzese Ettore Ferrari.
Nel loro nome e in quello degli oltre ventimila Fratelli rimasti in Italia, una pattuglia di
alcune decine di massoni andati esuli in Francia e negli altri paesi d’emigrazione riprenderanno i
contatti con le superstiti logge estere e, sotto la guida di Giuseppe Leti, ricostituiranno a Parigi nel
gennaio del 1930 il Grande Oriente d’Italia in esilio.
Al di là dell’indubbio valore simbolico-testimoniale di questa ricostituzione, dell’operato del
Goi dell’esilio andrebbe quanto meno ricordata la forza e la decisione con la quale il Gran Maestro
Alessandro Tedeschi denuncerà nel 1936 davanti all’opinione pubblica mondiale l’infamia dei gas
asfissianti utilizzati dall’aviazione fascista contro gli etiopi. Così come momento particolarmente
significativo della battaglia condotta dai massoni esuli contro la dittatura sarà la loro partecipazione
al volontariato internazionale a difesa della Spagna repubblicana minacciata dalla sedizione
franchista: dal Comandante del Battaglione Garibaldi Randolfo Pacciardi a Francesco Fausto Nitti,
protagonista alcuni anni prima con Rosselli e Lussu dell’ardimentosa fuga da Lipari; da Mario
Angeloni, caduto alla testa delle proprie truppe in uno dei primi scontri, a Giordano Viezzoli,
volontario dell’aviazione repubblicana che troverà la morte nel cielo di Toledo.
Né i massoni saranno assenti nella fase culminante della battaglia antifascista rappresentata
dalla Resistenza. Vi prenderanno parte nelle formazioni militari dei rispettivi partiti e movimenti
d’appartenenza ma anche attraverso una formazione politico-militare di pretta impronta massonica
quale l’Unione nazionale democratica italiana fondata da Placido Martini. “La storia – nota
giustamente Marcello Veneziani – non si può scrivere in bianco e nero, ha tante sfumature di
grigio”. Ma da questo grigiore emergono luminosi l’appassionato impegno di lotta di quanti in
condizioni di difficoltà estrema seppero garantire la continuità anche organizzativa del Goi
nell’esilio antifascista e soprattutto il sacrificio dei diciannove Fratelli (in maggioranza già
appartenuti o appartenenti alla Massoneria di Palazzo Giustiniani) che alle Fosse Ardeatine andando
A testa alta verso l’Oriente Eterno (come s’intitola il bel libro del compianto Mauro Valeri)
testimoniarono la fedeltà dei Liberi Muratori italiani a quel trinomio Libertà-Eguaglianza-
Fratellanza di cui i regimi totalitari, e il fascismo italiano tra essi, costituirono l’antitesi radicale.
Santi Fedele Ordinario di Storia contemporanea nell’Università di Messina