Centoventicinque anni fa veniva consegnato il Nobel per la Letteratura al fratello e poeta Giosuè Carducci, tra i cinque liberi muratori italiani che si sono conquistato il prestigioso riconoscimento. Gli altri sono Camillo Golgi che lo vinse nello stesso anno per la Medicina; Ernesto Teodoro Moneta (1907) per la Pace; Enrico Fermi (1938) per la Fisica; Salvatore Quasimodo (1959) per la Letteratura. La cerimonia, caso unico nella storia del premio, ebbe luogo a Bologna a causa delle precarie condizioni di Carducci, che era costretto in carrozzella. L’avvenimento è ricostruito nel volume “Massoni da Nobel” (Mimesis) a cura di Giovanni Greco e Velia Iacovino.
La sera del 10 dicembre, il barone De Bildt, passato prima da Londra e poi da Roma, venne prelevato dall’Hotel Brun di Bologna dal marchese Tanari prosindaco che lo condusse a casa Carducci dove lo attendevano il fratello Valfredo, le figlie Beatrice, Laura, Libertà, i generi Masi e Guaccarini, i nipoti, Vittorio Puntoni, il prefetto di Bologna, il senatore Pier Desiderio Pasolini con la moglie la contessa Silvia,
il marchese Nerio Malvezzi e poche altre persone. La cerimonia fu molto
semplice ma particolarmente sentita. Il barone consegnò a Carducci un telegramma
del re: “Felicitez de ma part Monsieur Giosue Carducci du prix
Nobel qu’il a si bien merité”. Carducci ringraziò il popolo svedese: “nobile
nei pensieri e negli atti”. In quella occasione il barone disse: “la libertà
del nostro pensiero non si conturba sotto le volte gotiche ed è perciò che
abbiamo sentito che possiamo, senza venire meno alla nostra fede, stendere
le mani in riverente omaggio verso di Voi. La severità morale delle vostre
liriche, la candida purezza nella quale sorge il vostro canto verso le alte
cime, tutta l’austera semplicità della vostra vita sono pregi elevatissimi,
davanti ai quali ci inchiniamo tutti, a qualunque religione o partito a cui
apparteniamo. Sono doni di Dio, che sotto qualunque forma apparisca, è
sempre lo stesso e da lui imploriamo che continui a scendere sul vostro venerando
capo la santa benedizione che si chiama amore”. In quella occasione
non fu consegnata la medaglia che invece venne data al ministro d’Italia
a Stoccolma e poi recapitata al Carducci tre giorni dopo da un funzionario
della Banca Commerciale. Il consiglio comunale di Bologna inviò al poeta
il seguente messaggio: “come la madre affettuosa si gloria dell’omaggio al
suo figlio insigne, Bologna che è vostra madre adottiva è superba di voi”.
Si spense due mesi dopo, la notte fra il 15 e il 16 febbraio 1907 per
un attacco fatale di broncopolmonite. I funerali solenni registrarono una
enorme partecipazione popolare e i suoi studenti e i suoi fratelli massoni
vegliarono la salma rivestita delle insegne massoniche. Ricordato anche da
numerose logge a lui intitolate in Italia come la n. 103 e la “ça ira” a Bologna
(sonetti carducciani sulla rivoluzione francese), originariamente loggia
democratica composta prevalentemente da artigiani, come la 752 a Vibo
Valentia, come la n. 813 a Roma o la n. 824 a Follonica. Riposa alla certosa
di Bologna accanto alla madre, alla moglie, ai figli e vicino alla sua tomba
monumentale vi sono quelli di Enrico Panzacchi e il sepolcro di Severino
Ferrari, poeta felsineo di “gentile e umanissimo cuore”. (di Giovanni Greco)