1805 – 1860
1805-1860. La nascita del Grande Oriente d’Italia e il ruolo della Massoneria nel Risorgimento
Nel 1805 fu costituito il Grande Oriente d’Italia. Tale data è stata ed è a tutt’oggi considerata dai massoni del GOI come il momento in cui ha avuto inizio la storia bicentenaria dell’Istituzione, poiché con essa faceva per la prima volta la sua comparsa un’obbedienza che – indipendentemente dal fatto di essere sottoposta alla tutela napoleonica o di non essere ancora in grado di esercitare la propria giurisdizione su tutta la penisola – contemplava finalmente la parola «Italia» e associava pertanto ai principi massonici di libertà, fraternità e solidarietà l’aspirazione a una nazione che smettesse di rappresentare soltanto «un’espressione geografica», ma fosse anche libera e unita. La nascita del Grande Oriente d’Italia assume un significato simbolico di notevole rilevanza che supera le diatribe storiografiche relative alla discendenza massonica da un corpo rituale o alla continuità iniziatica successivamente interrotta: da quel momento, infatti, tutti i massoni che si erano fino ad allora battuti per dare vita a una nazione libera e indipendente e a una società moderna, democratica e laica – anche in quelle regioni della penisola in cui il GOI non era presente – presero a riconoscersi in un’entità capace di creare un sentimento di appartenenza e di orgoglio, sentendosi allo stesso tempo italiani
e massoni: lo dimostra il fatto che le logge pugliesi e napoletane chiesero di unirsi al Grande Oriente d’Italia e che, oltre mezzo secolo dopo, i fondatori della loggia «Ausonia» di Torino si dichiararono eredi di quella breve ma significativa esperienza. Tuttavia, al di là dell’importanza del significato simbolico legato alla fondazione del GOI è certo che la massoneria costituì durante l’età napoleonica un fenomeno sociale e politico di per sé rilevante. In quel periodo si contavano nella penisola più di 250 logge (cifra che comprendeva quelle del GOI, quelle controllate direttamente da Parigi e quelle dell’obbedienza del Grande Oriente di Napoli), per un totale – seppur più che prudente – di 20.000 massoni attivi e quotizzanti. Un numero notevole se rapportato alla popolazione complessiva e, ancor più, se posto a confronto con gli individui maschi alfabetizzati. In quegli anni all’interno delle logge si ritrovarono, in un clima di fratellanza e parità, esponenti appartenenti alla borghesia, funzionari dello Stato, militari e parte di quella nobiltà che aveva accolto il nuovo che avanzava non disdegnando di stabilire rapporti con altre classi sociali. Le logge divennero pertanto luoghi di scambio e mediazione politica, grazie anche al fatto che vi era un comune sentire condiviso dal potere politico e dalla massoneria, i cui rispettivi vertici, spesso, coincidevano. Pur ammettendo eccessi di ‘adulazione’ nei confronti della persona dell’imperatore e dei suoi familiari, che presero parte a tutte le logge, non si può non riconoscere che le riforme napoleoniche, la cui modernità fu rilevata anche dai giuristi più esplicitamente ostili, furono ispirate e applicate principalmente da uomini – prefetti, sottoprefetti, alti funzionari dell’amministrazione – che affollavano le officine, dal canto loro veri e propri luoghi che, lungi dall’essere soltanto ritrovi conviviali allietati da banchetti e brindisi all’«Augusto imperatore», consentivano anche momenti di confronto serrato e costruttivo, in cui gerarchie e differenze sociali finivano per stemperarsi allo scopo di individuare soluzioni che potessero essere messe in atto una volta riacquistato il ruolo pubblico. Fu anche grazie a questo impegno per «il bene dell’umanità» se l’introduzione dei codici civili, innovativi strumenti del diritto positivo, non si trasformò in un mero esercizio teorico legislativo: il Code Napoléon (così definito nel 1807), che enunciava i diritti fondamentali dei cittadini equiparando la proprietà, intesa come diritto naturale assoluto e individuale, alla persona, venne subito applicato. Con esso si riconoscevano i diritti civili e politici di tutti i sudditi, anche i non cattolici – fino a quel momento pressoché costantemente discriminati -, mentre il godimento dei diritti veniva esteso anche agli stranieri.
morale dell’italiano e, soprattutto, dell’avvento in Italia di un modello di umanità rigenerata. Senza alcun dubbio tra gli aderenti all’Adelfia, alla Carboneria e alla Federazione Italiana numerosi furono coloro i quali transitarono nelle logge durante il periodo napoleonico, senza che però ciò si traducesse automaticamente in un sostegno alla politica dell’imperatore, anzi: all’interno delle logge si ritrovarono spesso uomini di differenti fedi religiose o nutriti di ideali e orientamenti politici contrastanti, ma che, tuttavia, cercavano nelle logge un luogo di confronto improntato alla comune tolleranza. Nel corso della dominazione francese agirono, infatti, anche nuclei massonici antigovernativi operanti sia esternamente sia internamente alle logge regolarmente costituite, le quali, come si è detto, erano di fatto uno strumento della politica napoleonica. Questa sorta di «massoneria antigovernativa» raggruppava anch’essa personaggi tra loro politicamente distanti, uniti però da una comune avversione a Bonaparte e alla dominazione francese: ad aristocratici con alle spalle frequentazioni in officine liberomuratorie nel corso dell’ultimo Settecento, si affiancavano infatti elementi giacobini vagheggianti l’istituzione di un regime repubblicano. E furono proprio queste componenti a dare vita al ‘magma’ settario dei primi anni della Restaurazione. Nel caso della Carboneria, per esempio, se si analizza il rituale del grado di Gran Maestro Carbonaro è possibile desumere con chiarezza come in molti casi gli affiliati a essa fossero stati in precedenza iniziati alla liberamuratoria o, quanto meno, continuassero – pur non facendone più parte – a riconoscersi nei suoi principi, dal momento che, come spesso veniva ripetuto, i massoni si erano «associati con i troni» (una chiara allusione al ruolo della massoneria durante l’impero napoleonico). Malgrado la brevità dell’esperienza è utile in questa sede, per meglio comprendere la mentalità e il clima che si venne a creare tra le fila degli affiliati al movimento carbonaro, soffermarsi per un momento sulla struttura e sulla ritualità. Suddivisi in tre gradi – «apprendista», «maestro» e «gran maestro» -, i carbonari si chiamavano reciprocamente «cugini». L’ingresso avveniva per messo di un’iniziazione, e gli affiliati si riunivano in gruppi denominati «baracche», suddivise a loro volta in «vendite». L’orientamento progressista e liberale, la struttura organizzativa gerarchica divisa in gradi, la fraseologia e la simbologia utilizzate, la complessità rituale nello svolgimento dei lavori e dei passaggi di grado non lasciano dubbi sulla matrice massonica. Agli ideali degli Illuminati di Baviera si rifaceva invece l’Adelfia, la prima organizzazione settaria che si costituì, immediatamente dopo la sconfitta di Napoleone ad Austerlitz, nell’Italia settentrionale; in seguito a un fallimentare tentativo insurrezionale, trascorsero tuttavia tre anni prima che si sentisse nuovamente parlare di quest’organizzazione, che venne ricostituita soltanto nel 1818 come parte di una più ampia struttura cospirativa creata a Ginevra dal massone Filippo Buonarroti. In quell’occasione il rivoluzionario toscano, che nel 1797 aveva partecipato alla «congiura degli Eguali» organizzata da Gracco Babeuf, coagulò attorno a sé il malcontento manifestato dagli ex ufficiali napoleonici e dai giovani aristocratici liberali. Buonarroti, facendo tesoro della propria esperienza massonica, diede vita a una società segreta – strutturata in gradi gerarchici non comunicanti tra loro – denominata dei Sublimi Maestri Perfetti, il cui obiettivo era quello di infiltrarsi e dirigere le diverse società segrete europee. Il primo grado dell’organizzazione si riconosceva nel liberalismo e aveva come fine la creazione di monarchie costituzionali. Il secondo vagheggiava un sistema istituzionale di stampo repubblicano, mentre il terzo si rifaceva completamente alle teorie egualitarie e comuniste di Babeuf e, nei piani di Buonarroti, doveva rappresentare la centrale operativa a livello internazionale. Si sa poco dell’attività e dei rapporti intercorrenti tra i vari gradi di questa società segreta, che spesso si presentava sotto nomi diversi.
Anche l’inesattezza delle carte di polizia e la contemporanea appartenenza a più gruppi dei protagonisti di questa stagione cospirativa non permettono di delineare un quadro più chiaro e preciso. Il duro clima repressivo imposto dalle forze della reazione a partire dal 1815 aveva spinto i vari oppositori ad accantonare le rispettive divergenze, così che nelle nuove società settarie, come era accaduto precedentemente nelle logge massoniche, si trovarono a operare fianco a fianco uomini i cui ideali politici erano notevolmente differenti: accanto ai seguaci di Buonarroti, repubblicani fermamente convinti che la Restaurazione fosse iniziata già con la proclamazione dell’impero nel 1805.
Erano presenti ex ufficiali e funzionari napoleonici che sognavano il ritorno di Bonaparte, o giovani aristocratici che, cresciuti ed educati nelle scuole francesi, si accontentavano di dare vita a monarchie costituzionali. La maggior parte dei cospiratori partecipò – ritrovandosi tra le fila dei carbonari e dei federati – all’ultimo ed eroico tentativo di far continuare quel processo di modernizzazione e liberalizzazione portato avanti anche dalle logge e bruscamente interrotto dalla Restaurazione imposta dal congresso di Vienna. Seppur sconfitti, questi ideali continuavano a incutere paura ai regimi assolutisti e alla Chiesa, al punto che la Rivoluzione francese, coi suoi aneliti di libertà, di eguaglianza e di fratellanza, finì per essere considerata una diretta conseguenza del pensiero massonico. Questa tesi, ripresa e approfondita negli anni successivi da numerosi pensatori antirivoluzionari che ritenevano il protestantesimo e la liberamuratoria le cause prime dei mali del mondo, fu per molto tempo alla base del pensiero reazionario. Il più noto di questi pensatori fu senza dubbio l’abate Augustin Barruel, un tempo affiliato alla massoneria e autore oltre che del saggio Mémoires pour servir à l’histoire du jacobinisme, scritto a Londra durante gli anni dell’esilio, anche di numerosi libelli dello stesso tenore. Secondo Barruel, la Rivoluzione prese corpo alla scuola dei sofisti empi, in cui «non tardarono a formarsi i sofisti della ribellione, e costoro alla cospirazione dell’empietà contro gli altari di Gesù Cristo, aggiungendo quella contro tutti i troni dei re, si riunirono all’antica setta delle infami logge dei Liberi Muratori, che in progresso di tempo si burlò dell’onestà stessa de’ suoi primi seguaci riservando agli eletti il secreto del suo odio profondo contro la religione di Cristo e contro i monarchi». Subito dopo la conclusione delle esperienze costituzionaliste tentate in Piemonte e nel Regno di Napoli, papa Pio VII (1800-1823) diede alle stampe la costituzione Ecclesiam a Jesu Cristo, rivolta contro la Damnatio societatis secretae nuncuptae Carbonariorum. Seppur espressamente diretta contro la Carboneria, tale condanna è tuttavia generalmente considerata dagli studiosi un documento antimassonico, poiché riteneva la Carboneria stessa e la massoneria le vere ispiratrici di tutti i complotti e le congiure ordite contro l’ordine costituito. Con la condanna si intendeva colpire il fenomeno delle società segrete, che proprio in quel periodo cominciavano costituirsi e che, secondo il papa, erano «imitazioni, se non addirittura emanazioni» della massoneria. Una tale interpretazione avrebbe avuto implicazioni importanti nel corso dei decenni successivi. Benché la Carboneria fosse un’organizzazione di natura politica e indipendente dalla massoneria, risulta del tutto evidente il tentativo fatto in quell’occasione di fornire legittimità a un pensiero che collegasse organicamente liberamuratoria, Illuminismo, liberalismo e movimenti risorgimentali in una sola categoria, il cui unico obiettivo era, secondo tale interpretazione, cospirare contro la Chiesa, intesa non soltanto come guida spirituale dei cattolici, ma anche e soprattutto come espressione del potere temporale dei papi in tutti i territori sottoposti alla loro autorità. Il successore di Pio VII, Leone XII (1823-1829), ribadì – attraverso la pubblicazione della costituzione Quo Graviora – la scomunica emessa contro ogni società segreta che fosse in grado di cospirare ai danni della Chiesa e dello Stato, sollecitando la collaborazione del popolo, attraverso la delazione e la denuncia, e dei governi, attraverso la repressione. Per il nuovo pontefice la segretezza di queste società era la prova inconfutabile della loro appartenenza a un’unica grande setta, il cui scopo era rappresentato da un unico disegno sovversivo.
Tutti i papi che si succedettero sul trono pontificio nel periodo risorgimentale reiterarono l’accusa rivolta alla massoneria di essere la madre di tutti i mali: così fece, attraverso l’enciclica Tráditi humiliati, Pio VIII (1829-1830), che definì i massoni «facinorosi, dichiarati nemici di Dio e dei principi, che promuovono la desolazione della Chiesa, la perdizione degli Stati, la perturbazione dell’universo, e che, spezzando il freno della vera fede, aprono la via a tutti i delitti»; o Gregorio XVI (1831-1846), che nell’enciclica Mirari vos sentenziò «che tutto questo enorme cumulo di mali ha origine anzitutto dalle macchinazioni di questa società in cui confluisce, quasi in una sorta di sozzura, tutto ciò che di sacrilego, di pericoloso e di blasfemo si ritrova nelle eresie e nelle sette più scellerate». Con il consolidamento del movimento risorgimentale si fece più pesante, da parte della Chiesa, la condanna contro le sette in generale e contro la massoneria in particolare, attraverso un crescendo spettacolare che ebbe inizio con il pontificato di Pio IX (1848-1878) e culminò con quello di Leone XIII (1878-1903), considerato, a ragione, il più implacabile nemico della massoneria. Con la rivoluzione romana del 1848 Pio IX comprese che l’unità d’Italia era ormai un processo irreversibile e che bisognava pertanto moltiplicare gli sforzi per distruggere «quella perversa associazione di uomini, detta comunemente Massoneria». Nel suo pontificato, l’ultimo papa-re emise 114 documenti antimassonici così suddivisi: 11 encicliche, 51 lettere, 33 allocuzioni e discorsi e 19 documenti maggiori di Curia; in tutti questi atti ricorreva l’ormai classico topos della comune matrice delle società segrete che cospiravano, apertamente o clandestinamente, contro la Chiesa e i legittimi poteri. A tale matrice si faceva inoltre risalire l’origine dell’ondata rivoluzionaria europea che, muovendo dal suo epicentro posto in Italia, finì per coinvolgere gli stati pontifici. Un anno prima degli avvenimenti di Porta Pia il pontefice romano riunì tutto il materiale antimassonico fino ad allora pubblicato nella famosa costituzione Apostolicae Sedis, che prevedeva la scomunica latae sententiae – riservata al papa – contro quanti «danno il nome alla setta dei massoni» e contro coloro che «in qualunque modo favoris[cono] tali sette […] e che non denunziano gli occulti corifei e capi di esse». Come nel caso di Benedetto XIV, il forte spirito antimassonico di Pio IX era da ricondurre al desiderio di smentire categoricamente le illazioni diffuse, per opposti motivi, dagli ambienti reazionari della Curia e da quelli risorgimentali circa una sua giovanile iscrizione alle logge (voci che si sono rivelate tuttavia infondate, come hanno dimostrato recenti ricerche). In seguito alla dissoluzione del Grande Oriente d’Italia e di quello napoletano non è più possibile parlare, per il periodo della Restaurazione, di massoneria intesa come un organismo strutturato, poiché con il ritorno degli antichi sovrani essa fu vietata e perseguitata. Tra coloro che avevano aderito alla liberamuratoria non per motivi politici ma perché attratti dal fascino delle ritualità esoteriche o dalle prospettive di avanzamento sociale, molti subirono la durezza della repressione poliziesca. La massiccia epurazione coinvolse anche quei funzionari degli apparati burocratici che, dopo la caduta di Napoleone, avevano conservato il loro potere e avevano individuato nella massoneria un organismo adatto al proprio protagonismo sociale e utile al superamento della struttura elitaria d’ancien régime, incentrata sul privilegio dei natali. Anche se successivamente considerazioni di carattere economico e amministrativo, come l’esperienza acquisita dalla burocrazia napoleonica, permisero il reinserimento di numerosi massoni, è necessario ricordare che in ogni caso tutti coloro che avevano aderito alle logge dovettero pagare in modi diversi una tale scelta. Il clima da ‘caccia al massone’ non portò tuttavia alla totale scomparsa della liberamuratoria nella penisola. A Napoli, per esempio, continuarono a operare logge clandestine (qui si tentò nel 1820 di ricreare un Grande Oriente); così come anche a Palermo, durante la rivoluzione del 1848. Ma soprattutto a Livorno dove, tra il 1815 e il 1859, operarono ben 19 logge. Recenti ricerche hanno permesso di individuare altre presenze massoniche in città costiere, come per esempio Genova, dove nel 1856 una loggia, in mancanza di un organismo massonico nazionale, si pose all’obbedienza del Grande Oriente di Francia, mentre a Chiavari liberimuratori locali aderirono addirittura al Grande Oriente del Perù.
© RIPRODUZIONE RISERVATA