1885 – 1915
1885-1915. Il ruolo del Grande Oriente nell’età liberale
La nomina a Gran Maestro dell’abile banchiere Adriano Lemmi impresse una svolta decisiva alla strategia liberomuratoria: sul piano esterno ciò si tradusse per l’organizzazione nell’acquisizione di un ruolo in qualche modo parallelo e complementare all’opera di Francesco Crispi nel governo del paese; su quello interno, la nuova gran maestranza ebbe il merito di portare a conclusione complesse e delicate operazioni di riunificazione dei residui gruppi ancora separati, assicurando così alla massoneria un significativo grado di compattezza, che segnò l’inizio del periodo di maggior splendore del GOI (durato almeno fino allo scoppio della Prima guerra mondiale). A partire dal 1885 la liberamuratoria – ormai totalmente riunificata – divenne l’elemento di raccordo delle forze democratiche più avanzate del paese e l’ispiratrice del governo per quanto riguardava la stagione delle riforme laiche e progressiste che si sarebbe sviluppata a fine secolo.
Lemmi dimostrò di possedere non solo notevoli capacità politiche, agevolato, in ciò, dal suo passato patriottico e dall’amicizia che lo aveva legato a Mazzini e a Garibaldi, ma anche organizzative: prima ancora di assumere la carica di Gran Maestro, egli aveva intuito che soltanto un GOI potente, frequentato dalla dirigenza politica ed economicamente solido poteva realizzare il suo progetto. Come primo atto organizzativo, infatti, Lemmi impose a ogni membro una tassa di iscrizione di 100 lire allo scopo di costituire un fondo patrimoniale che mettesse al riparo l’Istituzione da crisi economiche ma, soprattutto, che gli permettesse di finanziare quelle attività o iniziative utili a trasformare la massoneria non tanto in un vero e proprio movimento politico, quanto in un potente gruppo di pressione. Tuttavia l’ambizioso disegno di modernizzazione laica non passava soltanto attraverso il condizionamento dell’opinione pubblica; era anche necessaria l’adesione di una parte della borghesia illuminata, da parte sua attenta ai problemi sociali – quindi sostenitrice di riforme profonde -, fedele alle istituzioni e ostile alla Chiesa e, non ultimo in ordine di importanza, capace di coltivare e incentivare il culto del Risorgimento. Non soltanto gli eroi risorgimentali ma anche alcuni eretici vennero indicati come «padri nobili», anche se era sotto gli occhi di tutti il fatto che l’eresia, in Italia, aveva arrecato ben pochi danni alla Chiesa cattolica. Fu proprio nel corso dell’inaugurazione del monumento eretto in favore del più famoso degli eretici italiani, Giordano Bruno, il 9 giugno del 1889 in Campo de’ Fiori a Roma, che il GOI diede dimostrazione della propria forza, facendo convergere nella piazza dove arse sul rogo il martire nolano oltre tremila fratelli, che sfilarono per le vie della capitale dietro un centinaio di labari massonici.
Questa clamorosa sfida alla curia romana, insieme alla creazione, l’anno successivo, di un comitato a favore del divorzio, provocò un’energica reazione da parte del Vaticano che prese a svilupparsi per mezzo di due canali distinti. Il primo, definibile ‘ecclesiastico’, passò attraverso le disposizioni papali, le prediche domenicali e le pubblicazioni di vari ordini religiosi, tra le quali spiccava «Civiltà cattolica», organo dei gesuiti, che fin dall’inizio intraprese una forte polemica non solo contro la massoneria in sé, definita nell’arco di cento anni con termini quali «degna figlia di Satana», «abominevole setta di perdizione», «palude pestilenziale», «torrente d’iniquità e devastatore», «orrido dragone che suggerisce ogni male», ma anche contro i suoi membri, di volta in volta definiti come «nemici di Dio», «emissari di Satana», «mostri degli orrori», «moderni Farisei», «nuovi Sadducei» e «aspidi velenosi».
D’altra parte la liberamuratoria, con epiteti quali «bacherozzoli di sacrestia» o «pestilenza clericale» rivolti ai membri della Chiesa, non era meno pesante né, verbalmente, meno violenta. Il secondo canale di sviluppo della reazione da parte delle gerarchie vaticane passò invece attraverso la stampa e l’opera di propaganda della varie e molteplici organizzazioni che componevano l’universo del movimento cattolico, da parte sua impedito, per espresso ordine papale, a prendere parte alla lotta politica, ma estremamente attivo in campo sociale. La rivista «Civiltà cattolica» funse in questo senso da collegamento tra l’apparato ecclesiastico e le organizzazioni del movimento cattolico: a queste Leone XIII indicò precise linee di lotta e di comportamento perché, «trattandosi di una setta, che ha tutto invaso, non basta tenersi contro di lei sulle difese, ma bisogna coraggiosamente uscire in campo ad affrontarla. Il che voi, diletti figli, farete, opponendo stampa a stampa, scuola a scuola, associazione ad associazione, congresso a congresso, azione ad azione».
Se l’atteggiamento anticlericale e il progetto di modernizzazione del Paese era condiviso da tutti i massoni, non altrettanto può dirsi per il legame stretto con Crispi, poiché l’ostilità assunta dall’esecutivo e i primi sentori che si ebbero di una gestione autoritaria del potere cominciarono allora a destare preoccupazione in alcune logge. Il malcontento nei confronti del Gran Maestro per l’adesione incondizionata all’azione politica crispina sfociò, agli inizi degli anni novanta, nell’allontanamento di alcune officine, che diedero da qual momento vita a una nuova organizzazione massonica di stampo radicale. All’interno del GOI le logge milanesi si fecero portavoce del malcontento, chiedendo di frenare la repressione governativa e di ascoltare le richieste delle classi lavoratrici. La durezza mostrata dal governo da una parte, e la questione sociale dall’altra spinsero il GOI a un difficile e delicato esercizio di equilibrio politico.
In questo contesto, anche se la fiducia nell’esecutivo e nel fratello Crispi non vennero meno, maggiore impegno venne profuso nella realizzazione di una riforma del sistema tributario – che fosse in grado di «prendere a chi troppo ha per dare a chi non ha nulla»; nella limitazione al diritto di proprietà; nell’espropriazione delle terre non coltivate e nella soppressione degli enti inutili. Questo equilibrio instabile fu dapprima incrinato dal rilancio da parte di Crispi della politica conciliatorista, certamente funzionale alla creazione di uno schieramento moderato ma allo stesso tempo in grado di mortificare l’anticlericalismo dei massoni, e, in un secondo tempo, definitivamente rotto dalla repressione dei Fasci siciliani e dallo scioglimento delle organizzazioni socialiste.
Se fino ad allora la dirigenza del GOI si era dimostrata, seppur con qualche distinguo, solidale con Lemmi, non rilevando decise posizioni contrarie alla politica del governo da parte del Gran Maestro, da quel momento in avanti essa ne prese le distanze unendosi alla protesta di Ernesto Nathan, che aveva cominciato a disertare i lavori della giunta. Non prestando ascolto alle profetiche parole di David Levi, uno degli artefici della rinascita della massoneria nel corso degli anni sessanta, che ammoniva i fratelli a non legarsi mai ai destini di un uomo politico, Lemmi commise un grave errore, anche se occorre tuttavia ammettere che durante la gran maestranza di quest’ultimo si tentò consapevolmente, come ha sottolineato Conti, «di tirare le somme di un trentennio di presenza massonica nella società civile e di dotare finalmente il GOI – in quanto gruppo di pressione – di un programma omogeneo e condiviso da tutte le logge, in grado di costituire
il quadro di riferimento ideale per un progetto di intervento organico nella sfera pubblica: la massoneria doveva supplire a una storica carenza della società italiana, nella quale le forze del liberalismo progressista e della democrazia laica erano prive di un’efficace struttura organizzativa e pertanto incapaci di ricoprire un ruolo di indirizzo positivo dell’opinione pubblica. Il problema – di cui Lemmi avvertiva la gravità – era in pratica rappresentato dall’assenza di un partito della borghesia laica e liberale, mentre proprio allora un processo di aggregazione in una moderna forma-partito stava realizzandosi in campo socialista e la stessa Chiesa cattolica, attraverso la Rerum novarum, aveva dimostrato di riuscire a offrire in questo senso risposte adeguate». La comunione massonica poteva in parte svolgere questa funzione, a patto però di migliorare la propria diffusione geografica. Nel decennio 1885-1895 ciò avvenne grazie alla visibilità del sodalizio, che passò da 107 a 136 logge, ma soprattutto grazie alla formazione di officine in numerose zone che fino ad allora ne erano rimaste prive. Nell’ultimo decennio del XIX secolo «bussarono alle porte del Tempio» mediamente un migliaio di profani l’anno, e la liberamuratoria esercitò una forte attrazione sugli esponenti della borghesia urbana, estendendo la propria presenza in numerose città: malgrado questi successi, tuttavia, Lemmi non sopravvisse alla caduta in disgrazia di Crispi e, nel dicembre del 1895, si dimise dalla carica.
Nel giugno dell’anno successivo, l’assemblea del GOI individuò in Ernesto Nathan – figlio di Sarina, la fedele amica di Giuseppe Mazzini – il Gran Maestro cui sarebbe spettato il difficile compito di traghettare la massoneria nel nuovo secolo, separandola definitivamente da quella pesante e imbarazzante eredità che si era rivelata essere il connubio con Francesco Crispi. L’obiettivo primario era quello di ricomporre le tensioni interne in un quadro unitario. Oltre agli elementi aggreganti, come la lotta al clericalismo e le iniziative in ricordo dell’epopea risorgimentale, Nathan indicò ai fratelli la battaglia per la moralizzazione della vita e la trasparenza dell’Istituzione. Lo scandalo della Banca Romana aveva avuto alcune ricadute anche tra le file liberomuratorie e per questa ragione la massoneria, che radunava uomini di differente fede religiosa e politica, si sentiva in pieno diritto di chiedere «a ogni fede, a ogni scuola, a ogni partito, una qualifica fondamentale per l’esercizio di qualunque diritto o ufficio pubblico: specchiata integrità e disinteresse».
L’atteggiamento tenuto dal Gran Maestro nei confronti del potere, assai diverso e più duttile rispetto a quello del suo predecessore ma non meno attivo, sul piano politico, nella difesa delle istituzioni statali, non impedì al GOI di promuovere in modo più o meno indiretto iniziative tendenti a ricomporre le contraddizioni esplose a fine secolo nella società e nella politica italiane. Nell’imminenza della crisi di fine secolo, e nel corso di essa, numerosi interventi mediatori da parte di parlamentari e di politici massoni favoriranno la ricerca di nuove prospettive. Non a caso fu proprio il mazziniano Nathan a criticare i liberimuratori – politicamente repubblicani intransigenti – che continuavano a non partecipare alle elezioni per la ben nota pregiudiziale istituzionale: pur nella diversità di credo politico e di fede religiosa, il GOI chiedeva ai propri membri patriottismo e fedeltà alle istituzioni, auspicando che le officine potessero svolgere la funzione di camere di compensazione delle diverse posizioni politiche all’interno delle quali potessero attuarsi mediazioni e compromessi in nome del sentimento patriottico. I vertici del Grande Oriente non misero mai in seria discussione l’assetto istituzionale del paese, neppure nelle fasi più tragiche della crisi che scosse l’Italia a fine secolo, proprio perché l’Istituzione si era sempre identificato e continuava a identificarsi con lo Stato unitario nato dalle lotte del Risorgimento. Per esempio, l’enfasi con la quale veniva celebrata la ricorrenza del 20 settembre andava ben oltre l’opera pedagogica di educazione del popolo al culto della patria, proprio perché quella data era considerata una vera festa massonica da aggiungere alle tradizionali ricorrenze dei solstizi. La politica governativa, viceversa, non ottenne sempre il pieno consenso da parte dell’Istituzione, il cui stesso vertice era diviso tra una minoranza radical-repubblicana, critica nei confronti dell’esecutivo, e una maggioranza moderata, timorosa che una presa di distanza dal governo potesse minare l’unità dell’Obbedienza. Entrambi gli schieramenti erano d’accordo nel ritenere che occorresse, all’interno dell’istituzione massonica, aumentare la presenza della burocrazia statale, così da potere interagire con i gangli vitali dello Stato e della pubblica amministrazione indipendentemente dalle forze politiche che si alternavano al governo del Paese. L’esempio più eclatante di questo nuovo corso fu l’ingresso nell’Istituzione, massiccio in età giolittiana e nel periodo pre-fascista, degli ufficiali del regio esercito: grazie a questa apertura verso la piccola e la media borghesia, si verificò un notevole incremento degli iscritti. Ma queste nuove forze richiedevano in buona parte un’apertura a sinistra, a favore di quelle rappresentanze democratiche e socialiste nei confronti delle quali Nathan aveva mantenuto una certa cautela. I risultati non esaltanti ottenuti dalle formazioni liberal-democratiche nelle elezioni amministrative del 1902 e il definitivo accantonamento, da parte della Camera, del progetto di legge sul divorzio, vero e proprio cavallo di battaglia della massoneria, indussero il Gran Maestro a dimettersi per dare vita a una svolta in senso progressista.
Come successore fu scelto il repubblicano e scultore Ettore Ferrari, che fin dal proprio ingresso nell’Istituzione si era battuto affinché la massoneria svolgesse un ruolo più attivo nelle vicende politiche nazionali e internazionali. Il suo passato di esponente repubblicano impegnato in importanti lotte per la democrazia non poteva lasciare spazio a dubbi circa l’indirizzo che avrebbe tentato di dare al GOI. Nel discorso di insediamento alla carica di Gran Maestro, pronunciato il 14 febbraio 1904, Ferrari chiariva il ruolo che l’Obbedienza avrebbe dovuto ricoprire, affermando che: «la Massoneria non deve tenersi costantemente isolata e nell’ombra, ma scendere a contatto della vita, combattere alla luce del sole le sante battaglie dell’alta sua missione per la tutela della giustizia e per la grande educazione.
Nuovi bisogni presentano nuovi problemi; nuovi problemi esigono nuove soluzioni; da nuovi doveri scaturiscono nuovi diritti. La Massoneria non può, non deve chiudere gli occhi alla nuova luce, ma fissarla, scrutarla e dirigerla. Non deve cullarsi in teorie astratte, per quanto nobili ed elevate: ma affrontare i problemi d’attualità in cui siamo concordi, rinvigorirsi nella soluzione degli interessi che alimentano la vita dei popoli». Oltre ai tradizionali cavalli di battaglia rappresentati dall’anticlericalismo e dalla laicità della scuola, la nuova gran maestranza auspicava a livello nazionale una maggiore sensibilità nei confronti dei problemi relativi alla legislazione sociale e al mondo del lavoro e, a livello internazionale, l’istituzione di un arbitrato nelle contese tra Stati e lo sviluppo di una fattiva solidarietà con i popoli che lottavano per la propria indipendenza. Questo nuovo indirizzo programmatico non poteva che agevolare il riavvicinamento con l’obbedienza di Malachia de Cristoforis, nata da una scissione del 1895, e il trattato di riunificazione stipulato a Parma l’11 novembre 1904 ebbe un duplice effetto.
Da una parte si accentuò, attraverso l’opera e l’esempio delle attivissime logge milanesi provenienti dal Grande Oriente Italiano, l’ispirazione democratica della famiglia massonica della penisola; dall’altra ciò permise al GOI di riprendere i rapporti ufficiali con il potente Grand Orient de France. Il passaggio di consegne tra Nathan e Ferrari ai vertici dell’Istituzione coincise con un riavvicinamento al movimento del libero-pensiero. L’appoggio dato dai vertici del GOI al congresso internazionale da questo organizzato, che si tenne a Roma nel 1904, segnò una svolta di 180 gradi nell’indirizzo dell’Obbedienza di Palazzo Giustiniani, che solo un anno prima aveva imposto il divieto alle logge d’intervenire in forma ufficiale ai congressi del libero pensiero. La massoneria non si identificò tuttavia mai totalmente con esso, dato che vi era una profonda divergenza di carattere strategico: per i dirigenti del GOI, l’anticlericalismo era solo un mezzo attraverso cui tentare di laicizzare e modernizzare il paese, mentre per i circoli e successivamente per la Federazione del Libero pensiero esso era il fine.
Tale diversa interpretazione rendeva la massoneria certamente pragmatica, al punto che questa non esitò, in alcune occasioni, a prendere le distanze dall’intransigentismo dei liberi pensatori, i quali alcune volte si trovarono in compagnia di forze politiche ostili non solo alla Chiesa cattolica, ma anche alle istituzioni dello Stato. Il primo a mettere in guardia contro questo pericolo fu addirittura il «poeta di Satana», quel Giosué Carducci che indusse il Gran Maestro Nathan a prendere le distanze dall’anticlericalismo rivoluzionario di anarchici e socialisti. Ma la vera svolta si verificò nell’assemblea del febbraio 1906, in occasione
della quale la corrente democratica ottenne una netta vittoria e, a larga maggioranza, venne votata una modifica dell’articolo 1 della Costituzione, in cui si proclama esplicitamente che «la comunione italiana propugna il principio democratico nell’ordine politico e sociale», eliminando in tal modo l’agnosticismo in campo politico.
In questo modo il GOI si propose come punto di riferimento e agente di coesione per la sinistra laica e riformista dando vita alla stagione dei blocchi popolari che, in occasione di elezioni politiche o nella formazione di amministrazioni locali, cominciarono a utilizzare i rapporti massonici per favorire collegamenti fra esponenti di diversi settori politici, a partire dai socialisti riformisti per giungere fino a quegli esponenti della classe di governo che si definivano genericamente liberali, passando per i repubblicani e per i radicali. Questa alleanza tra massoneria e forze laico-democratiche andava ben oltre a un accordo elettorale e fondava la sua ragion d’essere sulla convergenza su temi come l’anticlericalismo e la laicizzazione della scuola, visti come la chiave di volta della battaglia per il consolidamento di uno stato laico. Per questo la mancata approvazione alla Camera, nel 1908, della legge che vietava l’insegnamento della religione nelle scuole elementari, anche a causa del voto contrario di numerosi deputati massoni, provocò una forte indignazione nelle logge e costrinse il Gran Maestro Ettore Ferrari ad adottare provvedimenti disciplinari nei confronti di coloro che non avevano appoggiato la mozione presentata dal deputato socialista Leonida Bissolati. Il pastore protestante Saverio Fera, che in quel momento ricopriva l’incarico di facente funzioni di Sovrano Gran Commendatore del Rito Scozzese Antico e Accettato, non avallò questa iniziativa e, proclamandosi come solo rappresentante della massoneria ‘scozzesista’ in Italia, si allontanò dal GOI, seguito di lì a poco da alcune logge e corpi rituali del Rito Scozzese. Iniziò da quel momento un’aspra contesa tra la nuova obbedienza, che prese in seguito il nome di Gran Loggia d’Italia, detta anche di «Piazza del Gesù», e quella di Palazzo Giustiniani per il riconoscimento di unica e legittima «potenza massonica» operante in Italia e nelle sue colonie da parte delle consorelle straniere. La decisione di abbandonare il Grande Oriente d’Italia fu l’epilogo di un dissidio generatosi negli anni precedenti tra la componente predominante di matrice progressista, laica e anticlericale e la combattiva minoranza liberalconservatrice. Pur provocando qualche fibrillazione a livello di relazioni massoniche internazionali, la scissione fu di fatto insignificante per il GOI, che continuò la propria straordinaria crescita passando da 195 logge nel 1904 a 286 nel 1907, con una media di circa 200 iniziati al mese. All’inizio del 1909 e con 15.000 iscritti, il GOI risultava una delle comunioni europee massoniche più forti, lontana da quella inglese e tedesca, ma di poco dietro al potente Grande Oriente di Francia. Attraverso una capillare diffusione su tutto il territorio nazionale le logge offrirono un quadro di riferimento ideale in occasione delle elezioni amministrative del 1908 e di quelle politiche del 1909 e furono invitate dal Gran Maestro a «costituire il fascio di tutte le forze democratiche dalle moderate alle socialiste per combattere le candidature clericali o reazionarie».
In questa fase il GOI raggiunse il massimo grado della politicizzazione, passando dalle generiche indicazioni di voto fornite nel passato, a un diretto intervento nelle dinamiche elettorali. L’esempio più famoso della politica ‘bloccarda’ fu l’elezione di Nathan a sindaco di Roma. Pochi si resero conto che un’eccessiva connotazione avrebbe snaturato il GOI dal punto di vista delle tradizioni liberomuratorie, facendo aumentare gli attacchi anche da parte di forze non clericali. E, infatti, così avvenne. All’estrema sinistra, i socialisti rivoluzionari – ma anche qualche riformista – pensavano che la sua natura interclassista nuocesse alla causa del proletariato e dovesse pertanto essere contemplata l’incompatibilità tra socialisti e massoni.
La proposta venne regolarmente fatta in tutti i congressi del Partito socialista a partire dal 1904, ma fu in occasione del XIII Congresso che si tenne a Reggio Emilia nel 1912 che la questione venne posta al centro del dibattito congressuale. La polemica fu ripresa da Benito Mussolini, già promotore nel 1910 di una mozione antimassonica, che appoggiò un ordine del giorno in cui chiedeva che la massoneria dovesse essere contrastata perché portatrice di quella «politica bloccarda nella quale si deformano i caratteri specifici dei partiti politici».
La questione antimassonica raggiunse il suo apice in occasione del XIV Congresso, che si tenne ad Ancona nel 1914. In quella assise vennero presentate due mozioni di segno opposto: una da parte di Giovanni Zibordi, in cui si chiedeva di sancire l’incompatibilità tra socialismo e massoneria, e l’altra da parte di Alfredo Poggi, favorevole invece alla doppia appartenenza. La mozione di Zibordi, che invitava genericamente i socialisti iscritti alla massoneria a uscirne e dichiarava incompatibile per i socialisti di aderirvi, venne appoggiata da Mussolini, allora direttore dell«Avanti!» e di fatto leader del partito, e integrata con un emendamento che esortava le sezioni del partito ad attuare l’immediata espulsione dei socialisti-massoni.
Questa proposta così emandata ottenne la stragrande maggioranza e mise fine a una polemica che si trascinava nei congressi socialisti da circa dieci anni. A destra, fin dalle origini, il Partito nazionalista pose alla base della propria azione politica la lotta alla massoneria, considerandola il simbolo del riformismo borghese, dell’umanitarismo cosmopolita contrario all’affermazione della supremazia nazionale ma soprattutto ispiratrice dell’esperienza bloccarda, vista come il massimo della degenerazione politica. Nel primo congresso del partito, la proposta d’incompatibilità con il nazionalismo venne approvata per acclamazione. Attraverso la rivista «L’Idea nazionale», nel 1912 venne avviata una sistematica campagna denigratoria che raggiunse il suo apice con la pubblicazione di un questionario a cui risposero più di 200 tra uomini del mondo politico e culturale vicini alle idee nazionaliste e, nella quasi totalità dei casi, contrari alla massoneria; esso non a caso venne ristampato nel 1925 dopo la promulgazione della legge che metteva fuorilegge le Obbedienze massoniche. Neanche l’adesione all’impresa libica, in cui la massoneria si mostrò fin dall’inizio favorevole, fece cessare le accuse di scarso patriottismo lanciate dai nazionalisti. Tali accuse, ritenute infamanti, riguardavano l’aiuto prestato al movimento dei «Giovani Turchi» dalle logge italiane di Salonicco. Fu proprio rispondendo a un appello lanciato dalla loggia «Macedonia risorta» al Gran Maestro, affinché si adoperasse per una soluzione che non umiliasse la Turchia, che la massoneria italiana espresse una posizione ferma e chiara, dichiarando che «l’impresa di Tripoli era una ineluttabile necessità» e che qualsiasi trattativa «costituirebbe una offesa alla unanime coscienza degli italiani ed un attentato contro gli interessi e la dignità della patria». I vertici del GOI, come buona parte dei radicali, repubblicani e socialisti riformisti, approvò l’impresa libica, giustificandola sia per l’aspetto economico, essendo considerata la Libia una terra con notevoli risorse naturali, sia come missione d’incivilimento, condividendo in pieno il giudizio di «fatalità storica» espresso da Giolitti. Le divergenze che dividevano quei massoni favorevoli, almeno fino al 1912, a un’alleanza delle forze laiche e democratiche fino a comprendere i socialisti e coloro che rifiutavano ogni contatto con gli eredi di Marx si ricomposero con lo scoppio della Grande guerra, che non solo sconvolse il mondo, ma divise l’Italia tra neutralisti e interventisti, rimescolando gli assetti politici e sociali del paese.
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