La scultura sembrava viva sotto il velo di marmo bianco: cinquecento ducati dal Banco per l’affare della vita (articolo di Vittorio Del Tufo).
Allora era vero, era così che doveva andare: il mio Maestro avrebbe unito per sempre il destino di quel giovane e gracile artista al suo. Allora era vero quello che, da umile servitore, mi ero permesso di sussurrargli un giorno all’orecchio: principe, facciamo nostra l’opera di quel magnifico scalpellista e vedrete, diventeremo immortali Lui, immortale, si era illuso forse di diventarlo davvero, ma la barbarie dei tempi non gli rendeva giustizia: perché erano ancora tempi superstiziosi e cupi quelli in cui viveva il mio Maestro, settimo principe di Sansevero, tra gli effluvi dolciastri di laboratori nei quali cercava di penetrare i segreti del creato e i capolavori senza tempo della cappella che aveva trasformato in un labirinto iniziatico. Lui, immortale, sperava di diventarlo davvero ed è per questo che posò lo sguardo, con cento anni di anticipo rispetto agli uomini del suo tempo, sulla scienza e sulla genetica, sulla meccanica e sulla medicina, sulla fisica e sulla geometria, mentre la Chiesa lo considerava un elemento da Santo Uffizio, e molti si segnavano quando lo incrociavano nel cammino, e solo la monarchia borbonica ne apprezzava l’ingegno. Napoli, anno del Signore 1754, il pomeriggio del 13 febbraio. Non vi erano esalazioni di laboratori alchemici ai piani nobili di Palazzo di Sangro dei principi di Sansevero.
Al civico 9 di piazza San Domenico tre uomini discutevano d’affari; uno di quegli uomini ero io, Giovanni Tibet, il servitore di don Raimondo. Eravamo seduti attorno a un grande tavolo, davanti a noi vi erano alcuni testi alchemici di cui pochissimi erano a conoscenza. Dalla piazza i suoni arrivavano tenui, ovattati; a poca distanza il dio Nilo osservava i minuscoli traffici che si svolgevano all’ombra della sua faccia barbuta. Mai occasione fu più solenne; attendevo quel momento da tempo e con trepidazione. Quel giorno c’era da perfezionare l’acquisto di una grande opera d’arte: la statua di un Cristo disteso sul letto di morte. Il mio Maestro, l’esoterista, il filosofo, lo stregone, l’astronomo, il poeta, lo scrittore, l’accademico, lo scienziato, l’alchimista, Raimondo il Fratello Massone che dopo aver costituito la loggia Rosa d’Ordine Magno (dall’anagramma del suo nome) aveva scalato tutta la gerarchia della Libera Muratoria fino a divenire il Gran Maestro di tutte le logge napoletane, Raimondo il chimico che molti consideravano pazzo, perché correva voce che avesse preparato nel suo laboratorio da stregone una mistura sacrilega in tutto e per tutto simile al sangue di San Gennaro, sfogliava il volume che campeggiava sul tavolo: era una preziosa traduzione dei Voyages de Cyrus di Michel Ramsay ,un classico della letteratura massonica. Ma quel giorno, il pomeriggio del 13 febbraio 1754, non era il sangue del martire Gennaro, e nemmeno quello versato da Hiram Abif, sommo maestro e architetto del Tempio di Salomone, a ossessionare il mio principe. Raimondo di Sangro, il committente dell’opera, stava per mettere le mani su un pezzo unico al mondo. Con noi, attorno al grande tavolo di casa Sansevero, c’era l’artista che aveva realizzato, in appena novanta giorni, quello spettacolo di devozione e superbia: il poco più che trentenne Giuseppe Sanmartino. Un tipo di poche parole, schivo, macilento, che per scolpire il suo Cristo di pietra si era avvalso del bozzetto del grande maestro veneto Antonio Corradini. Ma poi aveva deciso di seguire la sua ispirazione, di percorrere altre strade. A conti fatti, era stata la migliore decisione della sua vita perché lo avrebbe reso immortale. A tarda sera consegnai l’assegno al pallido e taciturno Sanmartino. L’artista lesse il documento controfirmato da Sansevero: «A Giuseppe Sanmartino ducati 500 per la statua scolpita in marmo di nostro signore Gesù Cristo morto, ricoperto da una sindone di velo trasparente dello stesso marmo, da detto Sanmartino lavorata di tutta soddisfazione». Il giovane scultore approvò: l’accordo era concluso. Il mio Maestro lo abbracciò; suggellarono l’accordo con una stretta di mano.
«Di tutta soddisfazione…». Il pìù soddisfatto di tutti, quel giorno, era proprio don Raimondo: il vero capolavoro lo aveva fatto lui. È vero, aveva pagato una fortuna per aggiudicarsi il progetto, ben cinquecento ducati, nessun tagliapietra, prima di allora, gli aveva chiesto tanto; ma era sicuro che ne sarebbe valsa la pena. Perché quel Cristo disteso sul letto di morte non era, il Maestrolo capì subito, come tutti gli altri: era, semplicemente, una delle opere marmoree più straordinarie al mondo. Il lavoro era terminato un anno prima, nel 1753, e Raimondo ne era rimasto estasiato. «Semplicemente perfetto», mi aveva confidato. Ricordo ancora le parole esatte: «Quell’opera è fatta con tale perizia che ingannerà gli occhi de’ più accurati osservatori». La statua del Redentore era avvolta in un sudario di marmo, che aderiva tanto bene alle forme del volto e del corpo del Cristo da mettere in evidenza le ferite del martirio: le mani e i piedi straziati dai chiodi, la ferita al costato. Carne e sudario erano una sola cosa. Nessuno poteva immaginare che l’opera firmata da Sanmartino sarebbe diventata una delle immagini simbolo di Napoli nel mondo. Il mio Maestro sì, lui lo aveva capito subito. Lo avevano dipinto in tutti i modi, il principe, prima di quel giorno, e ogni pennellata era più nera di quella precedente. Raimondo lo stregone. La favola nera di San Domenico. Il genio pazzo che custodiva nel suo palazzo gli oggetti più strambi di questo mondo: una Lampada Perpetua, o Luce Eterna, composta da una miscela di fosfato di calcio e fosforo ad altissima concentrazione in grado di bruciare fino alla notte dei tempi; un reliquiario identico a quello che conteneva il sangue di San Gennaro, grazie al quale Raimondo, utilizzando mercurio e altre misteriose sostanze (quali non lo confiderà nemmeno agli amici) riusciva a riprodurre nel suo Athanor segreto qualcosa di molto simile alla liquefazione del sangue del santo patrono: una reliquia blasfema degna di un Anticristo! Un esoterista fuori controllo che non esitò a pagare 2000 ducati al suo medico di fiducia, Giuseppe Salerno, per realizzare l’orribile teca dove alloggiare le famigerate macchine anatomiche: un’altra diavoleria grazie alla quale il Maestro e l’anatomista erano riusciti a ricostruire le reti venose e arteriose del corpo umano: un’opera talmente perfetta, e nella sua perfezione raccapricciante, che in molti avevano creduto che per realizzarla il principe non si fosse fatto scrupolo di uccidere due servi, un uomo e una donna incinta, sperimentando poi sui cadaveri una sostanza metallizzante di sua invenzione. Quante calunnie. E quanta invidia.
Ora che sorrideva davanti al genio timido e quasi impacciato di Sanmartino, il Maestro pensava che l’Arte, solamente l’Arte con il soffio sublime, e le gemme preziose che stava incastonando, pezzo dopo pezzo, opera dopo opera, nella cappella di famiglia trasformata in uno scrigno di capolavori, avrebbe potuto spazzare via quelle stupide maldicenze, e gli avrebbe restituito il posto che gli spettava nell’Olimpo dei Mecenati. Era o non era, Sansevero, il dotto studioso che per 120 ducati aveva acquistato una bibbia poliglotta dal mercante d’arte Antonio Celemente? Era o non era l’innovatore che aveva realizzato una stamperia nel proprio laboratorio sotterraneo, acquistando ben trentamila caratteri mobili dallo stampatore Nicolò Kommarek? Oh, sì, l’Arte gli avrebbe finalmente reso giustizia. Quella scultura, la più straordinaria di tutte, si sarebbe chiamata Cristo Velato: l’aveva realizzata interamente il giovane scultore napoletano, con una tecnica prodigiosa che avrebbe lasciato sbalordite intere generazioni di studiosi. Nessun oscuro sortilegio, insomma, anche se la straordinaria aderenza del velo-sudario al corpo di Cristo avrebbe autorizzato nei secoli le ipotesi più stravaganti, come quella secondo cui lo stesso Sansevero avrebbe insegnato al Sanmartino la tecnica di marmorizzazione alchemica, grazie alla quale il velo, adagiato sulla statua, si sarebbe poi con il tempo solidificato. Quante bugie: se di prodigio si trattò, fu il miracolo di un genio dell’arte. Il drappeggio, la finezza del velo, la sinuosità delle forme: un capolavoro più bello dei capolavori di Michelangelo. Fin qui il racconto di Giovanni Tibet, l’«umile servitore» di don Raimondo. Spirito ardito e genio del suo tempo; ma, per la storia, Principe Pazzo. La cupa le enda che lo perseguitò in vita lo avrebbe accompagnato pure nei secoli a venire, al punto che ancora, in molti, sono convinti che quel «genio perverso» non si fosse fatto scrupolo di far accecare il povero Sanmartino per impedirgli di realizzare, in futuro, opere di uguale bellezza. È grazie al principe, e alla sua fama sinistra, se l’area di piazza San Domenico Maggiore è ancora oggi considerata il cuore esoterico della città, l’epicentro della Napoli dei misteri. Benedetto Croce, che a don Raimondo ha dedicato pagine superbe nelle sue Storie e Leggende, ha contribuito a dipingerne la favola nera, fotografando così l’ultimo istante di vita del principe maledetto: «Quando sentì non lontano la morte, provvide a risorgere, e da uno schiavo moro si lasciò tagliare a pezzi e ben adattare in una cassa, donde sarebbe balzato fuori vivo e sano a tempo prefisso; senonché la famiglia cercò la cassa, la scoperchiò prima del tempo, mentre i pezzi del corpo erano ancora in processo di saldatura, e il principe, come risvegliato nel sonno, fece per sollevarsi, ma ricadde subito, gettando un urlo di dannato». (4- continua)