Il 20 agosto di 120 anni fa nasceva a Modica il grande poeta Italiano, massone -era stato iniziato a Modica nel 1922- vincitore nel 1959 del Premio Nobel per la Letteratura. Nell’articolo, pubblicato sul numero di luglio di Erasmo e che riportiamo di seguito, il professor Marco Rocchi si sofferma sui suoi versi libero-muratori.
Salvatore Quasimodo è iniziato in Massoneria il 31 marzo del 1922, non ancora ventunenne, nella stessa Loggia – la Arnaldo da Brescia di Licata – alla quale è affiliato da tempo suo padre Gaetano, capostazione di Modica (la città che a Salvatore aveva dato i natali il 20 agosto 1901, giusto centoventi anni fa). Il rapporto che per tutta la vita legherà il poeta al padre è intriso di riconoscenza. Una riconoscenza che il poeta esporrà nei versi struggenti scritti in occasione del novantesimo compleanno del padre, ricordando i tempi del devastante terremoto di Messina (“la tua pazienza triste / delicata, ci rubò la paura”); ma gli ultimi versi della poesia sembrano celebrare, con quel “Baciamo li mani” più il Maestro che il padre:
E ora nell’aquila dei tuoi novant’anni
ho voluto parlare con te, coi tuoi segnali
di partenza colorati dalla lanterna
notturna, e qui da una ruota
imperfetta del mondo,
su una piena di muri serrati,
lontano dai gelsomini d’Arabia
dove ancora tu sei, per dirti
ciò che non potevo un tempo – difficile affinità
di pensieri – per dirti, e non ci ascoltano solo
cicale del biviere, agavi lentischi,
come il campiere dice al suo padrone:
“Baciamu li mani”. Questo, non altro.
Oscuramente forte è la vita.
Una vita in salita, quella di Salvatore, obbligato prima a studi che non lo interessavano – il diploma di geometra a Messina, poi la mancata laurea in Ingegneria a Roma – poi a lavori precari nella capitale: disegnatore tecnico per una impresa edile, impiegato presso un grande magazzino. Infine, nel 1926, l’assunzione al Genio Civile di Reggio Calabria, dove Quasimodo si avvicina agli ambienti antifascisti.
Il caso però, a volte, si affaccia benigno; per Salvatore accade quando la sorella sposa Elio Vittorini che, intuendone le doti, lo spinge a tentare il tutto per tutto: nel 1938 lascia definitivamente il Genio Civile, che lo aveva portato a peregrinare tra Imperia, Cagliari e Sondrio, per dedicarsi alla scrittura. Nel 1941 ottiene, per chiara fama, la cattedra di Letteratura italiana presso il Conservatorio di Milano.
Pur coltivando in privato idee antifasciste, non sarà partigiano: la penna gli si addice più delle mitragliette, la parola è la sua arma. La sua è una Resistenza fatta di parole, il suo impegno civile e politico si riflette nei versi piuttosto che negli scontri a fuoco.
È questo il periodo in cui abbandona l’ermetismo intimista che lo aveva contraddistinto e si convince che la poesia non possa essere, in anni come quelli, svincolata dall’impegno, senza mai rinnegare tuttavia il potere evocativo della parola: una parola che diventa simbolo, capace com’è, vergata dalla penna di Quasimodo, di diventare significante che rimanda a un significato, e questo a un altro e a un altro ancora, in una catena di rimandi che pare senza fine. E qui Quasimodo, alfiere di libertà, di uguaglianza e di fratellanza, dà il meglio di sé, come nei celebri versi di Uomo del mio tempo, ove una desolata disperazione legata alla guerra appena conclusa (siamo nel 1946) rimanda alla speranza:
Sei ancora quello della pietra e della fionda,
uomo del mio tempo. Eri nella carlinga,
con le ali maligne, le meridiane di morte,
t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche,
alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu,
con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio,
senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora,
come sempre, come uccisero i padri, come uccisero
gli animali che ti videro per la prima volta.
E questo sangue odora come nel giorno
Quando il fratello disse all’altro fratello:
«Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace,
è giunta fino a te, dentro la tua giornata.
Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue
Salite dalla terra, dimenticate i padri:
le loro tombe affondano nella cenere,
gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore.
L’esortazione degli ultimi versi sembra fare da controcanto a quelli di aperta speranza di Goethe nel suo Symbolum (“Al di là gridano, / le voci degli Spiriti / le voci dei Maestri: / non tralasciare di coltivare / le forze del bene”).
I richiami liberomuratori nell’opera di Quasimodo vanno spesso ricercati con attenzione, così sfuggenti come sono a una perlustrazione superficiale, almeno nei versi più celebrati. Ma altre volte ci appaiono evidenti, quasi abbaglianti, come nei versi allusivi della poco nota poesia Il muro:
(…) I muratori
sono tutti uguali, piccoli, scuri
in faccia, maliziosi. Sopra il muro
segnano giudizi sui doveri
del mondo, e se la pioggia li cancella
li riscrivono, ancora con geometrie
più ampie. Ogni tanto qualcuno precipita
dall’impalcatura e subito un altro
corre al suo posto. Non vestono tute
azzurre e parlano un gergo allusivo.
Ma forse il tributo più bello è in uno scritto poco noto, in prosa, che Quasimodo pubblica su Pirelli. Rivista d’informazione e di tecnica, una rivista aziendale della famosa industria di pneumatici. Ebbene, nel dedicare una paginetta ai suoi ricordi di giovinezza, sceglie di parlare dei Muri siciliani, con parole che ci suonano familiari e che per troppo tempo sono rimaste sepolte in questa rivista sconosciuta ai più:
“Di tutte le mani che hanno alzato muri nell’isola, sulla costa orientale o dell’occidente, al vento chiuso o libero delle Madonie, dei Peloritani, degli Iblei, dell’Etna; muri svevi, arabi, barocchi, architetture del solleone e dell’autunno – di tutte le mani anonime o ornate da sigilli, voglio stringere quelle che hanno gettato un’immagine bianchissima sul mare di Trabia -. (…) L’uomo si alza un giorno dal suo letto di frasche e va in cerca di pietre e di calcina. Ha nella tasca un metro pieghevole da poche lire, un taccuino foderato di tela cerata su cui ha disegnato il «progetto» della sua casa con appunti di linee e cifre a matita copiativa: una matita bagnata sulla lingua, come fanno i ragazzi. L’uomo ha piedi nudi, pollici grossi e testa nera; ma sa come fare il tetto e inclinare spioventi. Muove l’architettura del suo cuore per squadrare e incatenare spigoli e capriate; sa che il sole vuole muri bianchi per essere mortificato. Non una voluta, un rotondo, spezza le sue linee; il suo occhio misura bene gli angoli, il suo martello incastra giusto la pietra. È solo a costruire: l’asino gli porti macigni e un ragazzo li spacca a colpi fitti, succhiando scintille. Lavora, operaio e padrone, architetto e ingegnere, per tre quattro mesi, prima delle piogge, e del sole vischioso, senza conto di ore per altri. Di ore fa un calcolo per sé sui fogli a quadretti del piccolo quaderno: dodici di una giornata per cento, centoventi. Centoquarantaquattro mattini e crepuscoli per vedere una piccola bandiera sul tetto e vuotare bicchieri di vino con gli amici che vogliono portare l’augurio nella casa nuova. (…) È stata un’immagine, appena uno spazio abbracciato da un volume leggero, da un’architettura da muratore, a farmi attento a queste ignote mani isolane; e poteva essere la memoria a suggerirmi forme semplici e precise dove abita l’uomo che mi è stato compagno e amico per millenni”.
La parabola esistenziale di Quasimodo, che passa per l’adesione al Partito Comunista, non lo condurrà mai a un materialismo ateo e non lo allontanerà mai da quella ricerca, anche esoterica, di una spiritualità che troverà il suo massimo compimento nella traduzione dal greco del Vangelo di Giovanni; lo stesso Vangelo aperto, sotto squadra e compasso, quella notte della sua iniziazione a Licata, il 31 marzo del 1922, sulle parole dell’incipit
Il Verbo era nel principio, e il Verbo era in Dio, e Dio era il Verbo, qui proposto proprio nella sua traduzione.
Il Nobel per la Letteratura, assegnatogli nel 1959, e che Salvatore andrà a consegnare nelle mani del suo vecchio padre (e fratello in Massoneria), meritato riconoscimento di una prestigiosa carriera, nulla aggiunge alla sua grandezza. [questo articolo è un ampio rimaneggiamento di un saggio contenuto in: Marco Rocchi, In pietra mutata ogni voce, Tipheret, 2020]
A Quasimodo libero muratore è dedicato anche un saggio pubblicato nel volume Massoni da Nobel (Mimesis) a cura di Giovanni Greco e Velia Iacovino, che sarà presentato nel corso della Gran Loggia che si terrà a Rimini l’1 e 2 ottobre prossimi.