Il ritornodi ErmeteTrismegisto/La Repubblica


Si conclude la pubblicazione del “corpus” esoterico
più misterioso dell’umanità. Una ricerca del divino
attraverso la mistica e l’abbandono del logos
di Francesco Monticin
i

Egli, per primo fra i filosofi, dalla fisica
e dalla matematica si volse alla
contemplazione degli dei; per
primo, disputò molto sapientemente
sulla maestà di Dio, sull’ordine
dei demoni, sulle mutazioni
delle anime». Così scriveva alla
metà del Quattrocento Marsilio Ficino, riferendosi
a Ermete Trismegisto. Quando Leonardo da Pistoia,
di ritorno da un viaggio in Oriente, portò in Toscana
una copia greca del Corpus Hermeticum, Cosimo
de’ Medici ordinò proprio al fondatore
dell’Accademia fiorentina di interrompere il suo
lavoro di traduzione di Platone per dedicarsi subito
a una resa in latino di quell’antica raccolta di testi
sapienziali.
Non pare un caso se in un’età malata di “indietrismo”,
per dirla con papa Francesco, dove né la memoria
né l’aspettativa teorizzate da Agostino nelle
Confessioni sembrano più funzionare a dovere, si
ripropone all’interesse collettivo un classico dell’esoterismo
come il Corpus Hermeticum, attribuito a
un autore che, già dotto nelle scienze, avrebbe volto
la propria speculazione al rapporto fra tempo
ed eternità. Dopo tre volumi – dedicati rispettivamente
alle sapienze occulte, al Dio cosmico e alle
dottrine dell’anima – un quarto tomo chiude, con
il tema del “Dio ignoto”, la monumentale opera di
studio del Trismegisto compiuta nel secondo dopoguerra
da padre André-Jean Festugière, adesso
disponibile in versione italiana grazie alla traduzione
curata da Moreno Neri per Mimesis. Benché,
dopo la scoperta dei codici copti di Nag Hammadi,
alcune tesi di Festugière possano considerarsi superate,
l’opera del domenicano francese resta fondamentale
per un approccio alla letteratura ermetica
e alla sua storia.
Come rimarcato anche nell’ampia postfazione
di Neri, la vicenda di questi testi sembra essere stata
improntata all’equivoco. Nonostante la passione
per un’altra raccolta esoterica grosso modo coeva,
gli Oracoli caldaici, i primi neoplatonici non si
sarebbero curati degli scritti ermetici perché li
avrebbero confusi con la tradizione gnostica, contro
cui si era espresso Plotino. Il precettore del figlio
di Costantino, Lattanzio, li avrebbe invece
amati, ritrovandovi delle profezie della rivelazione
cristiana. Nell’impero romano d’Oriente, il superlativo
“trismegisto” sarebbe stato accostato alla
Trinità. Più tardi, l’erudito Michele Psello – forse
ispirato dai cosiddetti Sabei, riparati a Bisanzio a
seguito della persecuzione abbaside in Mesopotamia

  • avrebbe riconosciuto in Ermete un contemporaneo
    di Mosè, influenzando profondamente le
    epoche a lui successive, compreso tutto il Rinascimento,
    almeno fino al filologo protestante Isaac
    Casaubon, che avrebbe correttamente riportato la
    datazione degli Hermetica ai primi secoli della nostra
    era.
    Il quarto volume dell’opera di Festugière si concentra
    sulla somma portata filosofica del messaggio
    ermetico. «Che cos’è Dio, il Padre, il Bene, se
    non il fatto che, di tutte le cose, quando esse non ci
    sono più, esiste almeno la sostanza stessa del reale?
    ». Che cos’è Dio, in altre parole, se non il sostrato
    comune ai vari enti, che impedisce l’esistenza
    del discontinuo? Il Corpus Hermeticum ripropone
    allora il dualismo della caverna platonica – un Dio
    ignoto occultato da un cosmo apparente – e ne accoglie
    il superamento per via mistica. Non la pseudo-
    mistica del sentimento, della preghiera, che
    anela a Dio ma ne conserva la distanza, foss’anche
    solo «di due archi o forse meno», come recita il Corano.
    Piuttosto, una mistica autentica, che non è
    devozione, e che mira all’unione effettiva di umano
    e divino.
    Se il quarto Vangelo – non per caso redatto a Efeso,
    patria di Eraclito – si apre con un inno al Logos,
    l’ermetismo raccomanda la destrutturazione della
    ragione, postulando l’impossibilità di accedere a
    Dio per il tramite della conoscenza ordinaria, che
    tramuta illusionisticamente il Tutto in uno spazio-
    tempo. Solo aprendo “l’occhio del cuore” (l’aynul-
    galb del sufismo) ci si potrebbe piuttosto risvegliare
    dai miraggi del logos, e dall’identificazione
    con il proprio Io, come da un sogno: l’illuminato risorgerebbe
    così oltre la porta dell’antico dio egizio
    Aker, signore del tempo, conoscendo l’eternità
    dell’istante compreso fra “prima” e “dopo”, avvinto in un entanglement che è poi l’Essere eleatico. Questo stato di coscienza, questa gnosi, paragonabilI alla vidya dell’Advaita Vedanta, si configuradunque a tutti gli effetti come una a-teologia, ovver una teologia senza logos. Viene da chiedersi, tuttavia se il limes metafisico fra fenomeno e noumeno possa essere davvero varcato; se non si possa, piuttosto, ricercare l’assoluto nel relativo. Se non ci si debba necessariamente limitare a un contenimento degli estremismi dell’individualismo, senza la mortificazione dell’identità. Se non sia insomma auspicabile – ma pure inevitabile – trovare nella relazione, in un’autentica dialettica con l’Altro (implicante, certo, una qualche sottrazionedell’Io), quella «sfera infinita il cui centro è ovunque e la cui circonferenza in nessun luogo> .


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