Nella monumentale edizione delle «Opere lulliane» diretta da Michele Ciliberto, torna la più grande lezione del filosofo che sarebbe finito al rogo: non c’è vera conoscenza senza la possibilità di critica.
Provate a immaginarvi la scena. Siamo nell’aula magna di una delle più celebri università tedesche, centro pulsante e simbolo culturale del luteranesimo. L’aula è gremita, e schierati nelle prime file stanno il rettore e l’intero senato accademico, venuti lì ad ascoltare il discorso di congedo di uno strano conferenziere, di un esule, «piccolo di corpo, scarso di beni, privo di favore, premuto dall’odio della folla, quindi sprezzabile agli stolti e a quegli ignobilissimi che non riconoscono nobiltà se non dove splende l’oro e tinnisce l’argento». Un “forestiero” in tutti i sensi, che però in quella università era riuscito a trovare un po’ di pace, e che appunto per questo aveva sentito il dovere di ringraziare quei professori che non solo non lo avevano disprezzato, ma anzi lo avevano accolto, offrendogli la possibilità di svolgere l’attività che più desiderava: quella di insegnare liberamente (…continua)