di Mauro Ceruti e Edgar Morin
Per i dotti dell’Umanesimo e del Rinascimento la civiltà europea poggiava su quattro colonne. Alle tre colonne delle tre grandi tradizioni monoteistiche (cristiana, ebraica, islamica) si aggiungeva la quarta colonna della sapienza degli antichi, della civiltà latina e greca riscoperta dagli umanisti nel Quattordicesimo e nel Quindicesimo secolo, attraverso le mediazioni più diverse, quali il monachesimo celtico e la cultura araba.
Era un’immagine di unità nella diversità e di diversità nell’unità. Attraverso la loro integrazione e interazione, le quattro tradizioni producevano l’equilibrio e la solidità dell’intera costruzione. Lo specifico del l’identità europea, e dell’identità italiana all’interno dell’identità europea, è proprio questa diversità, che è ancora e molto di più della diversità delle quattro colonne: è diversità di culture materiali, di lingue, di paesaggi naturali e umani, di climi, di tradizioni, di Nazioni, di Regioni e di città.
Il vero nucleo dell’Umanesimo sta dunque non in una replica formale dei modelli classici, ma in un nuovo modello di umanità, pervaso dallo spirito dell’accettazione reciproca e della convivenza delle diversità. La relazione fra passato e presente, fra culture diverse è sentita come feconda. L’immagine dei «nani sulle spalle dei giganti» delineava per la prima volta un’idea di progresso, cioè la possibilità che nel futuro potesse darsi qualcosa di inedito, e di migliore, rispetto al passato, e la possibilità di vedere più lontano rispetto ai giganti del passato: ma questa possibilità era indissolubile dallo studio del passato e dalla riflessione sulle memorie.
Fra l’Umanesimo e gli orizzonti planetari dei nostri giorni c’è la complessa esperienza dei cinquecento anni dell’età moderna, che sono anche i cinquecento anni del l’età planetaria (o della prima globalizzazione).
Fra il Quattrocento e il Cinquecento ha avuto inizio l’età planetaria del popolamento umano della Terra, la storia attraverso la quale tutti i frammenti del pianeta si sono trovati a legarsi gli uni agli altri. I primi secoli dell’era planetaria hanno prodotto il crollo delle barriere agricole e culturali del mondo, la nascita di un sistema economico mondiale, la scoperta della diversità antropologica, biologica ed ecologica su tutta la Terra, l’interconnessione di tutti i continenti, il dominio delle culture forti su quelle deboli e, alla fine, l’occidentalizzazione del mondo, attraverso la conquista. Si è generata una rete di comunicazioni mondiali, il cui sviluppo si è poi straordinariamente intensificato dopo la soglia del 1989, dando inizio a quella fase dell’era planetaria che chiamiamo globalizzazione. Gli sviluppi scientifici, tecnici, economici hanno prodotto nel Novecento un divenire planetario comune per tutti gli esseri umani. E si è insediato un unico mercato mondiale all’insegna del liberismo economico.
Il travalicare europeo nel mondo, allora e per tutta l’età moderna, sono stati segnati da un’ambivalenza essenziale, da un intreccio conflittuale fra creazione e distruzione che continua fino ai nostri giorni. Dopo il prodromo delle stragi di massa delle due Guerre mondiali, l’esplosione atomica di Hiroshima del 1945 è stata la campana d’allarme di un inedito pericolo estremo: la distruzione locale può precipitare nell’annientamento globale; l’umanità può sfociare nell’abisso ultimo del nulla. Questo rischio è oggi presente anche nel sempre più difficile rapporto dell’uomo con l’ambiente: è il rischio insito nel riscaldamento globale, nell’inquinamento dei suoli e delle acque, nel depauperamento delle risorse.
Nella nostra epoca si affollano grandi promesse, ma anche grandi minacce. Da una parte, il progresso scientifico-tecnico sembra aprire inedite possibilità di emancipazione rispetto agli obblighi materiali, alle fatiche quotidiane, alle malattie e alla morte stessa. Da un’altra parte, l’incubo della morte collettiva continua a incombere sull’umanità con le armi nucleari, chimiche, biologiche, e con il degrado ecologico.
Da una parte, c’è un mondo che vuole nascere, ma che non riesce a nascere; e, nello stesso tempo, questa possibile e improbabile nascita è accompagnata da un caos scatenato da forze di distruzione. Ed è essenziale illuminare il caos degli eventi, le loro interazioni e le loro retroazioni – in cui si mescolano e interferiscono processi economici, politici, sociali, culturali, nazionali, mitologici, religiosi – che tessono il nostro presente e il nostro destino.
Ma l’ostacolo a questa comprensione sta non solo nella nostra ignoranza: si annida anche e soprattutto nella nostra conoscenza. La specializzazione disciplinare ha apportato molte conoscenze, ma incapaci di cogliere i problemi multidimensionali, fondamentali e globali. I sistemi di insegnamento continuano a separare, a disgiungere le conoscenze che dovrebbero invece essere interconnesse, continuano a formare esperti che privilegiano una sola dimensione di problemi irriducibilmente complessi. Tutta la storia europea ci ha mostrato che la diversità senza un principio di coesione e di governo comune può divenire autodistruttiva. Per questo, dopo la tragedia immane delle due Guerre mondiali, i nostri padri hanno posto le basi dell’odierna Unione europea.
Hanno voluto dare forma politica e istituzionale al principio di complessità dell’unità nella diversità e della diversità nell’unità, come unica via di uscita a una prospettiva di autoannientamento.
L’Europa ha creato a suo tempo l’Università proprio nello spirito umanistico del l’equilibrio tra unità e diversità, tra memoria e progetto: come terreno di interfecondazione fra i saperi molteplici e plurali. A sua volta l’Università ha creato l’Europa: le sue classi dirigenti, la sua faticosa ma irreversibile presa di coscienza dei diritti umani, le sue realizzazioni economiche, sociali, scientifiche, tecnologiche. E in questo stesso spirito di unità e di diversità l’Europa ha creato i sistemi scolastici, quali condizioni essenziali dei diritti della persona e del cittadino. Nel presente momento storico, tuttavia, l’Europa rischia nuovamente l’autodistruzione per il prevalere degli egoismi nazionali, dei localismi unilaterali, della chiusura culturale, della prevalenza degli interessi di gruppo tendenti a cancellare il senso del bene comune. E in questo stesso momento storico l’Università e i sistemi scolastici rischiano l’autovanificazione sotto il peso della frammentazione, degli specialismi chiusi e incapaci di dialogare. Oggi la riscoperta e il radicamento nel senso più profondo della tradizione umanistica europea – il principio complesso della diversità dell’unità, dell’unità nella diversità – è la grande opportunità per avere un futuro, per costruire un futuro a misura di uno sviluppo umano integrale, dei singoli come delle collettività. La salvezza dell’Italia passa attraverso la salvezza dell’Europa, la salvezza dell’Europa passa attraverso la salvezza dell’Italia. Oggi i destini di tutti sono indissociabili. Ma per dare concretezza a queste parole dobbiamo riscoprire e valorizzare quello che ha sempre fatto dell’Italia, e soprattutto dell’Italia dell’Umanesimo e del Rinascimento, un microcosmo esemplare dell’Europa: la sua diversità interna e la sua apertura alle culture altre; la capacità di operare insieme come centro di innovazione e come luogo di confine e di integrazione fra le culture d’Europa e fra l’Europa e il mondo; la sua ricchezza di saperi che sono stati e sono a un tempo teorici e pratici, concreti e visionari, artistici e artigianali.
Per essere all’altezza delle presenti sfide, il compito è di coniugare ciò che la crisi attuale ci ha fatto credere separati: il rigore dei bilanci e gli investimenti nelle conoscenze, nella cultura, nella formazione, nella rigenerazione dei legami sociali; la direzione e la partecipazione; le culture umanistiche e le culture scientifiche; lo sviluppo economico e lo sviluppo umano integrale. Questa trasformazione nella condizione umana chiede di cambiare il nostro sguardo sul mondo, e innanzitutto di essere capaci di guardare il mondo: poiché il nostro sguardo intellettuale, formato dalla nostra formazione disciplinare, non può guardare il mondo che spezzettandolo in frammenti sparsi. Più ancora questa trasformazione ci impegna verso un cammino politico che è totalmente ignorato dalla politica tradizionale. È il cammino antropologico che ci dice che non ci potranno essere progressi unicamente e neppure principalmente garantiti dalle leggi del l’economia, né da strutture sociali o politiche. Ci dice che ormai la riforma politica è indissociabile da una riforma di civiltà, da una riforma di vita, da una riforma del pensiero, da una riforma spirituale, nella prospettiva di un nuovo umanesimo planetario.
Per la prima volta nella storia umana la Terra, in quanto Patria, è divenuta realtà concreta.
L’antico Umanesimo aveva prodotto un universalismo astratto, ideale e culturale. Il nuovo Umanesimo planetario non può che nascere da un universalismo concreto, reso tale dalla comunità di destino irreversibile che lega ormai tutti gli individui e tutti i popoli dell’umanità, e l’umanità intera all’ecosistema globale, alla Terra. Questo universalismo concreto non oppone la diversità all’unità, il singolare al generale. Si fonda sul riconoscimento del l’unità delle diversità umane e delle diversità nel l’unità umana, reso necessario dal fatto che qualunque sfida oggi ha una portata planetaria e ha bisogno dell’impegno di tutti, ognuno nella singolarità delle propria rispettive visione e nella relazione e nell’apertura agli “altri”.