di ALDO BELLI – All’incontro pubblico annuale di venerdì scorso a Villa Borbone il richiamo agli Antichi Doveri della Libera Muratoria.
Oltre cento fratelli provenienti da tutta la Toscana si sono ritrovati venerdì pomeriggio nel verde di Villa Borbone. E’ l’appuntamento pubblico annuale delle logge all’Oriente di Viareggio, la Felice Orsini 134 e la Dante Alighieri 932, che si ripete da sedici anni per ricordare il concittadino Roberto Mei scegliendo un tema legato al territorio: stavolta si trattava del bicentenario dell’elevazione di Viareggio a Città. A mantenere vivo questo appuntamento è Ivano Nocetti, al quale si è aggiunto negli anni il più giovane Stefano Barsella, entrambi Maestri Venerabili. Il sindaco di Viareggio Giorgio Del Ghingaro ha portato il saluto ufficiale. L’evento merita una riflessione.
Nel parco della villa non c’è traccia di grembiuli o compassi. Il clima è sobrio, il tavolo degli oratori all’essenziale. Non è una festa, anche se l’aria è festosa, nel senso che scorrono sorridenti i minuti in attesa che la conferenza abbia inizio. Considerando il periodo – siamo a cavallo della settimana di Ferragosto e sotto la cappa del Covid – la partecipazione è di buon auspicio. L’aria è pulita, rinfrescata da un vento leggero che si alza con il calare del sole.
Un uomo alla finestra guarda la scena dall’alto. Chissà cosa pensa. Non capita tutti i giorni di vedere tanti massoni insieme all’aria aperta. Magari è rimasto deluso pensando di trovare i Cavalieri dell’Apocalisse, facce tristi e tirate. Non ci sono telecamere, probabilmente i massoni all’aria aperta non fanno notizia. Tra i fratelli presenti nel pubblico è difficile capire se siano persone importanti, nel senso che ricoprano cariche e incarichi pubblici e privati di un certo livello nella società, sono vestiti come i comuni mortali molti dei quali in camicia e scarpe leggere. Strani massoni avrà pensato l’uomo alla finestra, che dopo un po’ si ritira chiudendo le ante per il mancato spettacolo.
A rendere l’aria pulita non è solo la brezza di mare e il profumo della pineta. Per quel poco o tanto che ci è dato conoscere della Versilia e della Lucchesia, brilla l’assenza dei notabili degli affari, delle professioni e delle istituzioni: massoni (indipendentemente dall’Obbedienza) o profani (abitualmente sensibili alle stanze buie e alle amicizie incappucciate). La risposta potrebbe essere quasi banale: gli affari non si fanno di certo all’ombra dei pini. Io propendo, invece, per queste conclusioni: ci sono in giro troppi massoni che preferiscono indossare il cappuccio fuori anziché dentro la loggia; e ci sono in giro troppi falsi massoni o che ai fratelli si dichiarano intimi, continuando a pensare che le Colonne del Tempio siano il sinonimo del tempio di Gerusalemme dove si vendevano buoi, pecore e colombe, e seduti i cambiamonete.
Ma siamo solo all’inizio delle sorprese. La professoressa Anna Vittoria Bertuccelli Migliorini suscita qualche imbarazzo nell’uditorio: non per la sua miseria, ma per essere stato preso in contropiede. Il taglio della sua relazione è molto alto: la riflessione inedita per molti aspetti, incornicia Viareggio tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, intreccia le guerre napoleoniche con la secolare autonomia della Repubblica Lucchese, ovvero colloca la nascita civile della città in un contesto storico assai più solido, rigoroso. Spunta fuori, così, la figura di Francesco Belluomini insieme alla grande tela “Retrato de la familia Belluomini de la ciudad de Viareggio”, opera di Stefano Tofanelli esposta al Museo Nacional de Bellas Artes di Santigao del Cile. Anna Vittoria ci conduce, di fatto, da Viareggio in America Latina, passando per Lucca e Parigi. Solo ripensandoci dopo, appare evidente il messaggio: la crisi di identità delle nostre città impone di tornare a guardare più in grande, si deve tornare a scavare negli strati geologici della nostra appartenenza per riannodare il filo che unisce presente e passato, scoprire e riscoprire anche il gusto della noia di attardarci sulla pagina che nasconde a prima vista ciò che cerchiamo, per levigare la pietra del mondo che ci circonda.
Non saprei dire se l’orgoglio costituisca un “peccato massonico”. Certo è che l’illustrazione a braccio di Antonio Dalle Mura di tutte le parti salienti dell’evoluzione di Viareggio con il nome e cognome di avi massoni suona come la rivendicazione di una verità storica. Non di meno il regista Adolfo Lippi – pur approfittando come sempre della sua amabile oratoria rischiando di far passare in secondo piano il concetto centrale – rivendica il contesto storico della insorgente liberazione del corpo che accompagna la nascita dei bagni sul mare.
Il dubbio mi viene spontaneo, a questo punto, ma non fa in tempo a comporsi perché un altro vento si abbatte sul parco: ha l’impeto del libeccio quando spazza il porto di Livorno, e al tempo stesso la quiete che riordina le banchine quando il vento si cheta. Il Gran Maestro Onorario Massimo Bianchi cita l’unghero d’oro – la moneta livornese – che nel 1655 il granduca di Toscana Ferdinando II dei Medici fece coniare: DIVERSIS GENTIBUS UNA. Da molti, uno soltanto. E per evitare qualsiasi falsa interpretazione ricorda la Sinagoga di Livorno in piazza Benamozegh costruita nel centro della città. Bene – dice dunque il Bianchi – abbiamo fatto questo, siamo stati, abbiamo dato, i nostri sindaci fratelli hanno amministrato città rimanendo nelle loro più alte memorie, e allora? Il giuramento massonico non è l’impegno del conservatore di un museo, è la libera decisione di migliorare se stessi per contribuire a migliorare il prossimo: qui ed ora. Migliorare se stessi, levigare la pietra grezza, non è facile: ma esistere ed operare per il bene e il progresso dell’uomo e dell’umanità, secondo libertà, uguaglianza, e fraternità, è un dovere senza il quale viene meno il nostro giuramento. Un dovere radicato nell’esempio.
Ubaldo Vanni, vicepresidente del Collegio dei Maestri Venerabili della Toscana, nel suo saluto iniziale aveva richiamato l’attuale discussione sul rapporto tra il Grande Oriente d’Italia e i social media, le nuove forme di comunicazione. A quanto pare, una riflessione ancora aperta. Massimo Bianchi aveva colto il primo aspetto essenziale della comunicazione per la massoneria: l’esempio personale in mezzo agli altri (non è sfuggito il suo passaggio, da intellettuale onesto quale è, sulle pietre grezze: ci sono anche pietre grezze che nonostante tutti gli sforzi non si levigano).
Può darsi che le parole di venerdì, nel silenzio magico del parco tirrenico, rappresentino una semplice occasione di confronto, oppure che rivelino qualcosa di più sostanzioso in movimento nel Grande Oriente d’Italia. Perché il solo sentire pronunciare quella parola – comunicazione – fa un po’ strano: almeno per chi è abituato a cogliere il permanere di una ossessione fuori tempo che caratterizza la massoneria italiana. Nella storia non esistono istituzioni indenni allo scorrere del tempo: neppure le più grandi e secolarizzate come la Chiesa Cattolica. Galileo Galilei sosteneva – e fu questo il vero motivo della sua condanna da parte del Santo Officio – che il Libro della Natura e le Sacra Scrittura erano entrambi inscindibilmente il Verbo di Dio. Laddove il Potere vedeva la contraddizione della lettera con la teoria copernicana, o altri l’aperta negazione, Galileo indicava la immutabilità dei principi nel tempo insieme all’evoluzione della capacità di lettura dei suoi interpreti.
Il punto, dunque, non è quello di replicare la futile distinzione tra massoni buoni e massoni cattivi, i Padri della Chiesa ci hanno insegnato che anche nella casa di Dio alberga il demonio. E non è neppure quello sorretto dai folcloristi alla Dan Brown sulla pubblicità degli iscritti alle logge massoniche. Il punto vero, nell’Italia del XXI secolo, è la visibilità concreta del pensiero e dell’azione nella vita concreta dei cittadini, un pensiero visibile in carne ed ossa. I nomi e i cognomi che danno luce al progresso e al bene comune non possono essere solo quelli presenti nell’albero del passato. E allora, quel dovere radicato nell’esempio, di cui parlava il Gran Maestro Onorario Massimo Bianchi, non capirei perché dovrebbe ignorare il mezzo di comunicazione più potente della nostra epoca: il web e i social media. Sarebbe un po’ come se Andersen o Paine o Voltaire o Enrico Fermi o l’Alfieri avessero ignorato l’invenzione di Gutenberg.
Il Gran Segretario GOI Francesco Borgognoni, al quale spettava chiudere il pomeriggio (Stefano Bisi è stato trattenuto per un sopravvenuto impegno istituzionale), è un fiorentino dalla mole massiccia, nell’espressione ricorda la Fortezza o un dipinto dei Medici. Per chi non lo conosce, potrebbe essere uscito da Il nome della rosa nel ruolo di Bernardo Gui, l’inquisitore dell’ordine domenicano. Mi pare di avere letto da qualche parte che sia uno scacchista appassionato, e pure di un certo valore. E’ sufficiente l’attacco del suo discorso per intuire che non ha deciso di muovere il pedone o l’alfiere, e che sicuramente se fosse entrato nel romanzo di Umberto Eco non avrebbe esitato un solo secondo nel difendere Guglielmo da Baskerville dalla violenza e dall’intolleranza dell’Inquisizione. L’espressione severa del volto si scioglie raccogliendo dal vissuto massonico il valore essenziale e concreto dell’iniziazione, per far salire – vorrei dire quasi con la dolcezza propria del sereno ragionare su cose profonde – l’appello ai fratelli, questo sì rigoroso, “a fare”. Le logge devono fare, ripete più volte. E affermandolo nel contesto storico di un paese, l’Italia attuale, nel quale il declino morale costituisce la prima causa di degrado della vita pubblica e privata, come dovremmo interpretare quel “fare” aggiunto a “per il bene comune”? Borgognoni riannoda tutti i precedenti interventi, e li riassume con quella frase che forse sorprende anche i fratelli che lo stanno ascoltando. Per il modo in cui lo dice, e per come lasci intendere che quel “le nostre logge devono fare” rivolto all’esterno altro non è dalla costruzione di un tempio interiore e morale.