Moriva a New York il 24 maggio 1974, Duke Ellington, icona assoluta del jazz americano e mondiale del Novecento e libero muratore. Era stato iniziato nel 1932 nella Social Lodge n. 1 a Washington D.C. officina della rete della Prince Hall Freemasonry, antica Obbedienza afroamericana, fondata il 6 marzo 1775, di cui hanno fatto parte tanti suoi illustri colleghi. Il suo vero nome era Edward Kennedy Ellington e il soprannome Duke “duca” gli fu attribuito durante l’adolescenza per il suo portamento aristocratico. La sua ascesa ebbe inizio nella Grande Mela nei ruggenti anni Venti in pieno proibizionismo, quando si esibiva in locali come il celebre Cotton club, di cui divenne l’attrazione fissa con la sua Jungle band, producendo un successo dopo l’altro: Mood Indigo, Rockin’ in rhythm, Creole rhapsody, It don’t mean a thing (if it ain’t got that swing), Sophisticated Lady, In a sentimental mood.
L’arrivo a New York
Nato a Washington, il 29 aprile 1899, compositore oltre ogni etichetta di genere, ha influenzato intere generazioni di musicisti: dalle orchestre di Woody Herman e Charlie Barnet a Thelonious Monk e Charles Mingus, e poi le avanguardie più underground di Sun Ra e Archie Shepp. Grande è il debito nei suoi confronti anche da parte dell’esule africano Dollar Brand, Muhal Richard Abrams e di Anthony Davis. La inarrestabile scalata del “Duca” ebbe inizio negli anni Dieci a Washington, sua cittá natale, e grazie ai suoi genitori, James Edward Ellington e Daisy Kennedy, che erano entrambi pianisti. In pochi anni il suo talento esplose insieme alle sue incredibili qualità manageriali, che lo portarono a radunare attorno a sé alcuni amici musicisti, come Otto Hardwick e Sonny Greer. E fu proprio grazie a quest’ultimo che Ellington nel 1922 approdò a New York per suonare con il gruppo di Wilbur Sweatman. Il suo primo importante ingaggio in uno dei più eleganti locali di Harlem arrivó nel luglio 1923. Duke era entrato a far parte della Snowden’s Novelty Orchestra, che comprendeva già un primo nucleo della sua futura orchestra. C’erano infatti Otto Hardwick e Roland Smith (ance), Arthur Whetsol e Bubber Miley (trombe), John Anderson (trombone), Elmer Snowden (banjo), Sonny Greer (batteria). Nel 1924, dopo l’allontanamento di Snowden, Ellington divenne il band-leader della formazione, che prenderà successivamente il nome di Washingtonians e rimarrà al Kentucky Club fino al 1927.
Il Cotton Club
Con l’arrivo nel 1926 di Irving Mills come impresario, l’orchestra cominciò la sua inarrestabile ascesa. Ellington fu ingaggiato dal Cotton Club, e questo si rivelerà una svolta decisiva nella sua carriera. Sono anni fondamentali per la scelta dell’organico, e conseguentemente della sonorità, dell’orchestra e della preparazione di un repertorio. Nel 1928 entrarono a far parte del gruppo Johnny Hodges (sassofono contralto e soprano) e Barney Bigard (clarinetto); nel 1927 Louis Metcalf (tromba), Harry Carney (sassofono baritono) e Wellman Braud (contrabbasso). Nel 1926 Ellington assunse il trombonista Joe “Tricky Sam” Nanton, che assieme a Miley avrebbe contribuito alla definizione del suono che avrebbe contraddistinto l’orchestra nei primi anni. Risalgono al 1927 i primi capolavori riconosciuti di Ellington: brani in stile jungle come richiedeva la moda esotica del momento per gli spettacoli stile afro del Cotton Club (Black and Tan Fantasy, The Mooche, East St.Louis Toodle-Oo) e brani d’atmosfera e di carattere intimista (Black Beauty, Mood Indigo). Negli anni trenta entrano nella band altri membri fondamentali: Cootie Williams, Rex Stewart (trombe), Lawrence Brown, Juan Tizol (trombone). E fu in questo decennio che Ellington cominciò a rivolgere la sua attenzione anche al rapporto fra voce umana e strumenti musicali. Come altri direttori d’orchestra all’epoca, era perfettamente consapevole dell’importanza commerciale di un vocalist nell’orchestra: un brano cantato aveva più possibilità di venire diffuso via radio e una band con una cantante, soprattutto se donna, assicurava un maggior numero di ingaggi. Alcuni pezzi nacquero già su testo e furono decisivi per far conoscere il suo talento artistico. Nel 1931 Duke ebbe l’intuizione di scritturare Ivie Anderson come cantante fissa ma attese un anno finché non trovò il primo pezzo giusto da farle incidere, appunto “It Don’t Mean a Thing” (If It Ain’t Got That Swing). Nelle incisioni di alcuni suoi brani tuttavia, Ellington si servì molto spesso della voce di altri solisti come Bing Crosby, Ethel Waters, Kay Davis, Rosemary Clooney. Nel 1939 nella sua orchestra ci furono altre new entry. Debuttarono Ben Webster (sassofono tenore) e Jimmy Blanton (contrabbasso). Quest’ultimo, nei tre anni in cui fu in grado di suonare e incidere (morì infatti nel 1941) rivoluzionò la tecnica e la concezione del contrabbasso che grazie a lui divenne non solo il motore dell’orchestra ma strumento solista vero e proprio, allo stesso livello di un qualsiasi strumento a fiato o del pianoforte. Sempre nel 1939 entrò a far parte del cenacolo del Duca il giovane compositore, pianista e arrangiatore Billy Strayhorn, che fino alla morte (1967) rimase il più fedele collaboratore, coautore e alter ego musicale di Ellington.
Quadri musicali
Tra il 1940 e il 1943 nacque così una straordinaria serie di incisioni che complessivamente costituiscono uno dei vertici assoluti della musica del Novecento e insieme il contributo più duraturo e generalmente riconosciuto di Ellington alla storia della musica afroamericana. Essendo quasi impossibile estrapolare, da questa lunga e apparentemente inesauribile sequenza, gli innumerevoli capolavori, potrà essere sufficiente citare, tra i tanti, Jack The Bear, Ko-Ko, Concerto For Cootie, Sepia Panorama, Cotton Tail, Harlem Air Shaft. Molti brani ellingtoniani sfuggono a una ristretta etichettatura di genere, andando ben oltre gli schemi tecnico-interpretativi del jazz dell’epoca. Più spesso, nel caso del Duca, si deve parlare di musica espressionista del Novecento, e l’idea che le sue composizioni fossero dei “quadri musicali” o che egli riuscisse a “dipingere con i suoni”, fu un concetto più volte espresso dallo stesso Ellington, che non a caso in gioventù aveva lungamente coltivato anche una certa passione per la pittura (in realtà, prima di diventare musicista, aveva accarezzato l’idea di intraprendere la carriera di cartellonista pubblicitario). Il brano Mood indigo (che si potrebbe tradurre con umore color indaco) è uno degli esempi più significativi dell’espressionismo di Ellington. I grandi risultati ottenuti si dovettero anche al fatto che per oltre trent’anni Duke Ellington riuscì a mantenere unita la sua orchestra, caso abbastanza raro a quei tempi, il che gli permise di amalgamare il gruppo e di plasmarlo secondo la sua inventiva, raggiungendo un’intesa perfetta con ciascuno strumentista e ricavandone un sound unico e inconfondibile, quasi che l’orchestra fosse un unico strumento nelle sue mani.
Canergie Hall
A partire dal 1943 Ellington iniziò a tenere ogni anno un concerto alla Carnegie Hall (1943-1948) tempio della musica colta d’ispirazione europea, in occasione del quale lanciava, , una nuova composizione in forma di suite ad ampio respiro. Nel 1943 fu presentata, e per fortuna incisa integralmente (cosa che non accadrà più in studio, se non in versioni frammentarie), una composizione ispirata alla storia dell’integrazione razziale dei neri negli Stati Uniti, dal titolo Black, Brown and Beige. Negli anni quaranta e cinquanta diversi solisti lasciarono l’orchestra per seguire la carriera solistica o per ragioni di salute (tra cui il batterista Sonny Greer, per problemi di alcol, il sassofonista Ben Webster, a causa del carattere irascibile di questi e delle continue liti che intercorsero tra i due, e il clarinettista Barney Bigard, per problemi di stress derivanti dai frequenti tour in tutto il mondo). Dopo un periodo di declino, che duró dal 1951 al 1955, Ellington pubblicò due album, Back to Back e Side by Side. L’orchestra tornò sulla cresta dell’onda con la celeberrima esibizione al Festival del Jazz di Newport la sera del 7 luglio 1956, esibizione nota per il lunghissimo assolo di sax tenore di Paul Gonsalves come intermezzo tra i due brani “Diminuendo in Blue” e ” Crescendo in Blue ” composti nel 1937.
A Newport
È interessante notare che questi due brani, insieme a Jeep’s Blues sono le uniche registrazioni dal vivo contenute nell’originario disco Ellington at Newport, uscito nella tarda estate del 1956: in quel disco tutte le altre registrazioni, benché dichiarate “dal vivo”, sono in realtà state incise pochi giorni dopo il concerto in studio e mixate con finti applausi, operazione che suscitò il disappunto di Ellington. Solo la casuale scoperta dei nastri della emittente radiofonica “The Voice of America”, più di quarant’anni dopo, dimostrerà lo splendore e la forza del concerto originale. Questa scoperta renderà possibile la pubblicazione nel 1998 del doppio CD Ellington at Newport – Complete, che contiene l’intero concerto, senza tagli e/o omissioni, a testimonianza definitiva di un evento storico realizzato da un’orchestra e da un direttore in forma eccellente. Nei primi anni ’60, Ellington registrò con artisti che erano stati amici – rivali in passato o erano musicisti più giovani che si concentravano su stili più moderni. Le orchestre di Ellington e Count Basie registrarono insieme l’album First Time! The Count Meets the Duke (1961). Durante un periodo in cui Ellington era tra un contratto discografico e l’altro, fece dischi con Louis Armstrong The Great Summit (1961), con Coleman Hawkins, con John Coltrane Duke Ellington & John Coltrane (1963) e partecipò ad una sessione con Charles Mingus e Max Roach che produsse l’album “Money Jungle” (1962). Nel 1962 firmò per la nuova etichetta Reprise di Frank Sinatra, sotto la quale nel giro di poco più di tre anni produsse otto album che per la maggior parte privilegiavano la musica da intrattenimento. Da segnalare il progetto di collaborazione tra Ellington e lo stesso Sinatra, che si concretizzò solo nel 1968, a contratto scaduto, con la pubblicazione di un solo album (Francis A. & Edward K.) che tuttavia deluse sia la critica che il pubblico, riscuotendo un mediocre successo commerciale.
Tour anche in Italia
In quegli stessi anni, alcuni musicisti che avevano precedentemente lavorato con Ellington tornarono all’Orchestra come membri: Lawrence Brown nel 1960 e Cootie Williams nel 1962. In seguito la carriera di Ellington fu scandita da una serie innumerevole di tour per il mondo e da nuove registrazioni: eccellenti le suite Such Sweet Thunder (1958), ispirata alle opere di William Shakespeare, la Far East Suite (1966) e la New Orleans Suite (1970), nonché il Second Sacred Concert (1968, con la cantante svedese Alice Babs). I tour furono interrotti il 31 maggio 1967, giorno nel quale morì di cancro all’esofago il suo intimo amico e preziosissimo collaboratore Billy Strayhorn: per le tre settimane seguenti Duke non uscì dalla sua camera da letto, per tre mesi non diede concerti e cadde in una depressione profonda, interrotta solo dalla registrazione del celeberrimo album And his mother called him Bill… contenente alcune delle più famose partiture di Strayhorn. Un altro giorno funesto per l’orchestra fu l’11 maggio 1970, quando, durante una seduta dentistica, un infarto uccise Johnny Hodges. Negli anni sessanta e settanta nel collettivo brillarono le presenze di Norris Turney (sax alto, flauto), Harold Ashby (sax tenore), Fred Stone (flicorno), Buster Cooper e Julian Priester (trombone), Aaron Bell, Joe Benjamin e Ernest Shepard (contrabbasso), e Rufus Jones (batteria). Il 19 luglio 1970 Ellington si esibì al festival Palermo Pop 70 di Joe Napoli; nello stesso mese tenne un concerto alla Bussola di Marina di Pietrasanta dell’impresario Sergio Bernardini e ripreso dalla Rai Duke Ellington morì, di cancro ai polmoni, il 24 maggio 1974, assistito dal figlio Mercer e senza sapere che pochi giorni prima era morto anche il fidato collaboratore Paul Gonsalves per overdose di eroina. Mercer Ellington non aveva avuto il coraggio di dargli la brutta noti