I lavori, moderati dal Gran Bibliotecario, Bernardino Fioravanti, hanno fatto riflettere il folto pubblico su una storia, quella del Graal, che ha animato ricerche e fantasie, invitando passione e ragione a spostare i propri confini interiori. “Una radice di senso – ha sottolineato Cardini – perché da qualunque prospettiva si parte, a unire è la bellezza della ricerca non il possesso degli oggetti”. “Questo saggio – ha proseguito lo storico del Medioevo – è anche un sorprendente spaccato di cultura europea, perché il merito maggiore di Zambon è aver dimostrato come la cultura graalica sia davvero al centro del mondo occidentale”. Seguendo gli ‘accidenti’ di questo ‘oggetto’, ci si imbatte -nel corso delle sue declinazioni storiche- nel “meglio delle cose più importanti e significative della grande cultura occidentale, con riferimenti anche alla musica. Si attraversano i gangli di questa cultura – ha rimarcato Cardini – e perciò queste pagine sono anche un grande libro sulla metamorfosi della cultura occidentale”.
La semplice ricerca, però, non è garanzia di successo. Spesso, nella pagina come nella storia, i Cavalieri che cercano non trovano nulla. Cardini ha citato un altro riferimento, i ‘Sette sermoni ai morti’, di Carl Gustav Jung: “Quando vede i morti tornare da un pellegrinaggio a Gerusalemme, li coglie a mani nude. Perciò – ha chiosato lo storico – sono rimasti morti. Ma ciò che è importante è la ricerca di ciò che ci fa sentire uomini, la volontà di tendere a qualcosa. E’ lo stesso desiderio di conoscere di cui parla Gotthold Ephraim Lessing quando scrive: “Il valore dell’Uomo non sta nella verità che qualcuno possiede o presume di possedere, ma nella sincera fatica compiuta per raggiungerla. Se Dio tenesse chiusa nella mano destra tutta la verità e nella sinistra il solo desiderio sempre vi…vo della verità e mi dicesse: scegli! Sia pure a rischio di sbagliare per sempre e in eterno mi chinerei con umiltà sulla sua mano sinistra e direi: Padre, dammela! La verità assoluta è per te soltanto…”. Per Cardini “è questo, in fondo, il senso vero della Queste del Saint Graal, la cerca del Graal”. Perché “ci sono due dimensioni del cercare: la domanda, il cercare per sapere, e la Queste, il cercare per ottenere. Ma quando si parte per la Queste, si inizia anche un’avventura umana. E una volta raccontato il mito, occorre passare al significato”. Nell’esegesi del Graal abbiamo davanti “una foresta oscura, che in parte è ciarpame esoterico ma racconta anche temi importantissimi per la nostra modernità”. In questo cammino, il libro di Zambon è “profondamente ‘metamorfico’, un compagno di strada”,
A sottolineare la bellezza di queste pagine anche Mario Mancini, che si è soffermato sul ‘racconto mistico’ del Graal e sugli intrecci che lo studio di Zambon propone al lettore, coinvolgendo nell’analisi antropologia e storia delle religioni. “I testi del Graal – ha spiegato lo studioso – raccontano una storia di umanità e ricerca profonda. Oscillano tra la religione ufficiale e altre credenze: chi legge quelle pagine è colpito dal loro intricato situarsi rispetto al credo ufficiale. La storia ci dice che ogni insegnamento segreto rischia di entrare in conflitto con le verità ufficiali. E allora occorre cogliere il senso che il racconto pone in controluce”.
“Le riscritture moderne del Graal – ha sottolineato Zambon – rivelano nei lori momenti più alti alcuni aspetti del mito che toccano aspetti profondi della cultura e della civiltà occidentale. Sul tema del Graal c’è una produzione ‘commerciale’ che spaccia a volte pura fantasticheria, come le ipotesi dei rapporti dei Catari con il Graal. Per affrontare nei suoi testi questo mito, è necessario purificare l’aria da fumose fantasticheria – ha avvertito lo studioso – perché al centro di questo mito c’è il tema di una ricerca che muta continuamente”, fino a diventare una nicchia vuota con altri simboli che spingono a loro volta a mettersi in viaggio per cercare ancora. Anche per questo, secondo Zambon, “la più bella definizione del mito è di Fernando Pessoa: ‘il nulla che è tutto’. Perché il mito è un racconto che in virtù del suo senso e significato, indica altre dimensioni”. E se “esiste un rapporto molto stretto con il tema delle reliquie, il mito del Graal è profondamente anti-cataro”, ha sottolineato ancora l’autore del saggio. “Il Graal – ha chiarito Zambon- è un mito letterario. Se dovessi dire dove è veramente il Graal, direi che si nasconde nelle Biblioteche del mondo”.
Le infinite vie dello studio e la necessità di “un’apertura mentale del cercatore di senso” sono stati i punti posti dal Gran Maestro all’attenzione della platea. Raffi ha in particolare invitato a riscoprire “il significato e la verità della tensione spirituale, del continuare a chiedere e cercare nonostante i fallimenti, che non sono sconfitte ma avamposti per altri viaggi di conoscenza a confronto”. Nei romanzi del Graal tutto si dice con la forma narrativa, il dialogo e il romanzo. Che è anche una teologia della storia, perché “Hebron deve andare senza indugio in Occidente, nel luogo che vorrà e in cui lo spingerà il cuore…”. Più i Cavalieri vanno avanti e penano, più sperano. La conoscenza delle prove si fa conoscenza di se stessi. Jessie L. Weston in “Indagine sul Santo Graal” sottolineava come in fondo la leggenda del Graal sia un continuum nella storia, e coinvolga Paesi distanti tra loro, dalle Isole britanniche all’Africa centrale. Un “rituale del culto della vita”, sosteneva la studiosa, come indica la storia del Re Pescatore. “Il Graal – scriveva la medievista – è una forza vitale, non morirà mai. Potrà rimanere sommerso e svanire, addirittura per secoli e secoli dal campo della letteratura. Ma riemergerà e ancora una volta tornerà ad essere un vitale principio ispiratore”. Nuove parole per il ‘romanzo’ di una che in ogni tempo, anche sottoterra, si aprirà una strada nella crosta di ferro, e tornerà a parlare.
“Occorre guardare con occhi contemporanei questa leggenda senza tempo”, ha proseguito il Gran Maestro di Palazzo Giustiniani, ricordando ciò che scriveva un grande studioso, Franco Cuomo: “Il punto di forza della leggenda è nel rappresentare questa lotta squisitamente interiore in termini spettacolari, raffigurando materialmente l’oggetto della Ricerca nella mistica coppa del Graal. Per questo e solo per questo i Cavalieri – annotava ancora l’autore di Gunther d’Amalfi – percorrono le vie del mondo attraversando metaforiche foreste, vincendo incantesimi e talvolta perdendosi nel labirinto delle proprie visioni, al solo scopo di ritrovare una reliquia ch’è la sintesi estrema di ogni bene. Perennemente in armi e in preghiera, perennemente tesi alla realizzazione di un sogno, perennemente impediti dalla loro umana imperfezione, sono gli eroi di un’avventura senza tempo, intessuta di simboli e di segni misteriosi. Decifrarli può aiutare l’uomo di oggi, come quello di un remoto passato, a capire se stesso”.
Mirabile un passaggio di Umberto Eco. Come Gradale, lo scrittore sceglie la povera scodella di legno nella quale Gagliaudo, padre di Baudolino, in punto di morte beve un ultimo sorso di buon vino. E nell’ultimo dialogo con il figlio, Gagliaudo paragona la coppa in cui doveva aver bevuto il Nazareno, che era figlio di un falegname ed è sempre vissuto “con dei morti di fame peggio di lui”. “Per tutti i diavoli, si diceva Baudolino. Ha ragione questo povero vecchio. Il Gradale doveva essere una scodella come questa. Semplice, povera come il Signore. Per questo magari è lì, alla portata di tutti, e nessuno lo ha mai riconosciuto perché per tutta la vita hanno cercato una cosa che luccica…”.
“Come infinita ricerca di vita e di senso – ha concluso il Gran Maestro Raffi – il Graal è ancora davanti ai nostri passi nella notte”.