di Sandro Cappelletto
Mozart non avrebbe potuto immaginare luogo più adatto per Il flauto magico.
Sabato la sua opera, considerata il più alto omaggio mai concepito da un artista alla massoneria, va in scena nell’abbazia sconsacrata e scoperchiata di San Galgano, al confine tra le province di Siena e Grosseto. Qui, nel Duecento, i monaci eressero uno tra gli esempi supremi dello stile gotico-cistercense in Italia. E qui, da qualche anno, le logge toscane – in tutto 109, di cui 44 solo a Firenze – celebrano «l’agape del solstizio d’estate», uno degli appuntamenti rituali della massoneria: «Sovrano architetto dell’Universo, degnati di benedire il nutrimento che stiamo per assumere e di rivolgere uno sguardo benefico su questa assemblea», è la formula con cui si apre quella cerimonia.
«I nostri templi hanno come soffitto la volta stellata – spiega Stefano Bisi, presidente del Collegio massonico toscano -. In questa abbazia, la volta stellata è quella naturale del cielo ed è questo, per noi, il primo elemento di fascino. Inoltre, ci riteniamo gli eredi spirituali dei maestri muratori che hanno costruito questo capolavoro e che, attraverso la verticalità delle navate, volevano elevarsi al cielo. Molti fratelli non perderanno l’appuntamento con Mozart». A poca distanza, sorge l’eremo di Montesiepi, dove il cavaliere Galgano Guidotti, nel 1180, conficcò quella spada nella roccia che ancora oggi, protetta da una teca, si può ammirare. «Indubbiamente, questo è un luogo di elevazione – dice Luca Canonici -. Non soltanto per i massoni, ma chiunque lo visiti. Cantare Mozart qui è un’esperienza meravigliosa e al pubblico arriva questo messaggio di pura bellezza. Per i massoni, evidentemente, c’è un significato ulteriore». Il tenore toscano, 50 anni a settembre, in carriera da 25, interpreta Tamino in questo Flauto. Canonici è anche il direttore artistico di Opera Festival, l’associazione che ogni estate produce spettacoli lirici in Toscana. Quest’anno, Don Giovanni e Flauto magico, prima al Giardino di Boboli, poi a San Galgano. Sempre con ottimi riscontri di pubblico.
Canonici, lei ha avuto ulteriore notorietà all’ultimo Sanremo, quando con Pupo ed Emanuele Filiberto di Savoia ha cantato Italia amore mio.
«Guardo a quell’esperienza in maniera distaccata e divertita. Ho sempre cantato tutto, da Bach a Berio. La voce è il nostro strumento e io, molto umilmente, presto le mie corde vocali alla musica che si presenta. Naturalmente, mi fa più paura cantare alla Scala che a Sanremo».
Dal Rigoletto, l’opera del suo esordio, al Flauto magico. Sanremo a parte, c’è coerenza stilistica.
«Sono sempre stato un carattere indipendente, seguendo due principi: da un lato non formalizzarmi come cantante, non precludermi delle avventure; dall’altro, rispettare la musica, che significa cantare soltanto quello che puoi cantare”.
Da tre anni ha assunto la direzione artistica di questa rassegna. Perché?
«Non siamo un teatro d’opera stabile, dove i problemi di gestione e sindacali sono diventati, negli ultimi anni, molto incombenti. In questa esperienza, vive una dimensione di amicizia, di rapporti personali con cantanti, musicisti, registi, tecnici, che ci permette di andare in scena facendoci lavorare bene. I risultati, in termini di pubblico e di crescente qualità, sono sotto gli occhi di tutti. Se perdi la dimensione umana, anche questo lavoro diventa un’altra cosa».
(La Stampa) 21 LUG 2010